Archivio per marzo 2012

sent. 18 novembre 2011 n. 2728

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

Sezione V Penale

Composta dagli Ill.mi Signori: dr. Aldo GRASSI Presidente dr. Piero SAVANI Consigliere dr. Paolo Antonio BRUNO Consigliere dr. Maria VESSICHELLI Consigliere dr. Paolo DEMARCHI ALBENGO Consigliere

ha pronunciato la seguente SENTENZA

sul ricorso proposto il 12.5.2011 dall’avv. F. A., difensore di S. R., nato a Catania il 10.2.1969, avverso la sentenza della Corte di Appello di Catania del 16 febbraio 2011. Letto il ricorso e la sentenza impugnata. Sentita la relazione del Consigliere dr. Paolo Antonio BRUNO. Udite le conclusioni del Procuratore Generale, in persona del Sostituto dr. Maria Giuseppina Fodaroni, che ha chiesto di dichiararsi la inammissibilità del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Catania confermava la sentenza del 27 novembre 2009 con la quale il Tribunale di quella stessa città-sezione distaccata di Mascalucia aveva dichiarato S. R. colpevole dei reati a lui ascritti (ai sensi degli artt. 61 n. 11 e 635 bis c.p. per avere cancellato, nella qualità di dipendente della ditta individuale G. una gran quantità di dati dall’ hard disc del personal computer della sua postazione di lavoro ed ai sensi degli artt. 61 n. 11 e 624 c.p. per essersi impossessato di diversi cd rom contenenti i back-up successivi al 25.6.2004, sottraendoli al titolare della ditta S.) e, per l’effetto, ritenuta la continuazione e con la concessione delle attenuanti generiche ritenute equivalenti alla contestata aggravante, l’aveva condannato alla pena ritenuta di giustizia, nonché al risarcimento dei danni in favore della persona offesa, costituitasi parte civile, oltre consequenziali statuizioni di legge. Avverso la pronuncia anzidetta, il difensore dell’imputato ha proposto ricorso per cassazione, affidato alle ragioni di censura indicate in parte motiva.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. — Il primo motivo d’impugnazione denuncia violazione dell’art. 606 lett. b) in relazione all’art. 635 bis c.p., sul rilievo dell’insussistenza degli estremi del contestato reato, specie alla luce della testimonianza del tecnico informatico C. A., che aveva riferito che dopo la cancellazione i dati informatici erano stati recuperati. Contesta inoltre la valutazione dei giudici di merito in ordine alla natura dei dati cancellati, alla data dell’operazione ed al tipo di programma utilizzato per il recupero dei dati. Il secondo motivo deduce violazione dello stesso art. 606 lett. e) sotto il profilo dell’apprezzamento delle risultanze di causa, segnatamente in punto di ascrivibilità del fatto all’imputato, che aveva avuto luogo sulla base di dati meramente congetturali. Con i motivi nuovi parte ricorrente denuncia violazione dell’art. 606 lett. b) e c) in relazione all’art. 635 bis. Contesta, in proposito, che l’affermazione di responsabilità sia stata affidata alle risultanze di una operazione tecnica affidata a persona di dubbia competenza, il C. A., peraltro effettuata senza il contraddittorio tra le parti, benché irripetibile. Il secondo motivo lamenta la mancata effettuazione di apposta perizia tecnica.

2. — La prima censura dubita della sussistenza degli estremi del reato ipotizzato (danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici). La ratio della doglianza risiede nell’assunto secondo cui, essendo stati recuperati i files cancellati, in esito all’intervento di un tecnico di fiducia della ditta interessata, non ricorrerebbe la fattispecie delittuosa, che postulerebbe, in una delle alternative prospettazioni, la cancellazione in senso di definitiva rimozione dei dati cancellati dalla memoria del computer. La censura è destituita di fondamento, sia in linea astratta, che con riferimento alle peculiarità della fattispecie concreta. Prendendo le mosse dalla dimensione fattuale, è vero che dall’istruttoria dibattimentale, attraverso l’escussione del teste che, su incarico della ditta, aveva effettuato l’operazione di recupero, risultava l’effettivo salvataggio dei files cancellati, ma è pur vero che il tecnico aveva riferito di non avere aperto gli stessi e che, solo in esito alla loro apertura, se ne sarebbe potuta verificare l’integrità. Dall’escussione di altri testi era, poi, emerso che, inutilmente, se ne era tentata l’apertura, in quanto buona parte dei flles erano irrecuperabili. Senonché, anche dal punto di vista meramente formale, il rilievo difensivo è infondato, in quanto il lemma cancella che figura nel dettato normativo non può essere inteso nel suo precipuo significato semantico, rappresentativo di irrecuperabile elisione, ma nella specifica accezione tecnica recepita dal dettato normativo, notoriamente introdotto in sede di ratifica di convenzione europea in tema di criminalità informatica (con legge 23 dicembre 1993, n. 547). Ebbene, nel gergo informatico l’operazione della cancellazione consiste nella rimozione da un certo ambiente di determinati dati, in via provvisoria attraverso il loro spostamento nell’apposito cestino o in via “definitiva” mediante il successivo svuotamento dello stesso. L’uso dell’inciso per evidenziare il termine “definitiva” è dovuto al fatto che neppure tale operazione può definirsi davvero tale, in quanto anche dopo lo svuotamento del cestino i files cancellati possono essere recuperati, ma solo attraverso una complessa procedura tecnica che richiede l’uso di particolari sistemi applicativi e presuppone specifiche conoscenze nel campo dell’informatica. Di talché, sembra corretto ritenere conforme allo spirito della disposizione normativa che anche la cancellazione, che non escluda la possibilità di recupero se non con l’uso — anche dispendioso — di particolari procedure, integri gli estremi oggettivi della fattispecie delittuosa. Il danneggiamento che è presupposto della previsione sostanziale, sottospecie del genus rappresentato dal reato di danneggiamento di cui all’art. 635 c.p., deve intendersi integrato dalla manomissione ed alterazione dello stato del computer, rimediabili solo con postumo intervento recuperatorio, e comunque non reintegrativo dell’originaria configurazione dell’ambiente di lavoro. Si tratta, dunque, di attività produttiva di danno, in quanto il recupero, ove possibile, comporta oneri di spesa o, comunque, l’impiego di unità di tempo lavorativo. Nel caso di specie, oltretutto, non mancava neppure la componente del danneggiamento in senso fisico, in quanto i files in buona parte recuperati non potevano più essere aperti e, quindi, erano definitivamente perduti, segno evidente che la cancellazione era avvenuta con l’uso di apposito sistema di sovrascrittura. La seconda censura, relativa alla riferibilità del fatto all’imputato è inammissibile, in quanto meramente reiterativa di questione già prospettata in sede di appello, in ordine alla quale la risposta del giudice a quo non può ritenersi carente od opinabile. L’ascrivibilità soggettiva non può ritenersi frutto di gratuite congetture, tenuto conto delle indirette ammissioni dello stesso imputato (che ha riferito delle forti tensioni esistenti nella realtà di lavoro e del particolare risentimento da parte sua, che lo avevano indotto alle dimissioni), dell’accertata manomissione del suo computer e, soprattutto del fatto, che l’irrecuperabilità di alcuni files “salvati” era dovuta anche all’apposizione di password, che soltanto lo S. conosceva. Il primo dei motivi nuovi dedotti dalla difesa non é pertinente, in quanto. nel caso di specie, non si è trattato di indagine tecnica disposta dall’autorità o dalla p.g. che avrebbe comportato il rispetto delle garanzie di difesa, ma di incarico conferito dalla ditta danneggiata ad un tecnico di fiducia perché procedesse al tentativo di recupero dei files cancellati. Del mancato espletamento di perizia tecnica, oggetto del secondo motivo, il ricorrente non ha ragione di dolersi, posto che la perizia è mezzo di prova notoriamente neutro, sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, sicché non può, per definizione, avere carattere di decisività (cfr. Cass. sez. 4, 221.2007, n. 14130, rv.236191).

3. — Per quanto precede, il ricorso deve essere rigettato, con le consequenziali statuizioni espresse in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Cosi deciso in Roma, nella camera di consiglio del 18 novembre 2011.

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Infedele patrocinio – sent. 3 nov. 2011- 20 febb. 2012, n. 6703

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE VI PENALE

Sentenza 3 novembre 2011 – 20 febbraio 2012, n. 6703  (Presidente Cortese – Relatore Fidelbo)

Svolgimento del processo

1. – Con la decisione in epigrafe indicata la Corte d’appello di Trento, sull’impugnazione del pubblico ministero, ha riformato, in parte, la sentenza di assoluzione pronunciata dal Tribunale di Trento in data 22 dicembre 2008, e ha dichiarato M.Z. responsabile del reato di cui all’art. 380 comma 3 c.p. limitatamente alla contestazione sub b) del capo A) dell’imputazione, condannandolo ad un anno di reclusione ed Euro 516,00 di multa, con sospensione della pena e non menzione, nonché al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile; inoltre, ha assolto l’imputato dalle restanti contestazioni relative al medesimo reato perché i fatti non sussistono; ha, infine, confermato nel resto le assoluzioni di cui alla prima sentenza. L’unico episodio di infedele patrocinio per il quale l’imputato è stato ritenuto colpevole riguarda, nella ricostruzione della sentenza d’appello, la condotta dello Z. che, quale difensore di fiducia di R..N. , all’epoca imputato dei reati di bancarotta fraudolenta e frode fiscale, avrebbe consigliato al proprio cliente di presentare una dichiarazioni IVA non veritiera, relativa all’anno 2004, in questo modo istigandolo a commettere il reato di cui all’art. 2 d.lgs. 74/2000, condotta che configura per l’avvocato la violazione del dovere di correttezza di cui all’art. 36 del Codice Deontologico Forense e che nella specie ha cagionato un danno al cliente, integrando così la fattispecie di cui all’art. 380 c.p. 2. –

Nell’interesse dell’imputato l’avvocato M. P. ha presentato ricorso per cassazione.

Con il primo motivo il ricorrente deduce il vizio di motivazione, assumendo che i giudici di secondo grado abbiano sostanzialmente travisato il contenuto di alcune dichiarazioni presenti in atti, utilizzate a dimostrazione del consiglio illecito che Z. avrebbe dato al proprio cliente. In particolare, si evidenzia la contraddittorietà della sentenza là dove richiama la dichiarazione resa dal commercialista R. per sostenere che l’imputato avrebbe impedito al N. di avvalersi dei consigli del suo commercialista: da tale dichiarazione, secondo il ricorrente, non emergerebbe nulla di tutto ciò, avendo il teste riferito solo di una “mancanza di rapporti” con l’avvocato Z. Si rileva come anche dalle dichiarazioni imprecise e contraddittorie del N. non emerga la prova del consiglio illecito che l’avvocato Z. avrebbe suggerito al suo cliente. D’altra parte, si sottolinea come l’imputato abbia sempre negato di avere consigliatoci cliente di sottoscrivere la dichiarazione IVA.

Sotto un altro profilo, il ricorrente denuncia la intrinseca contraddittorietà della motivazione che, mentre riconosce l’assoluta inattendibilità della parte civile in relazione ad una serie di episodi e circostanze, gli attribuisce credibilità con riferimento all’unico episodio del “consiglio illegale”, senza dare conto di tale evidente discrasia; analogo vizio motivazionale viene indicato in relazione a quella parte della sentenza in cui si riconosce la piena capacità, anche economica, di N. di poter adeguatamente e liberamente valutare e apprezzare il senso di una strategia difensiva, ad esempio contattando altri professionisti. Con il secondo motivo si censura la sentenza impugnata per avere omesso ogni motivazione in ordine alla consapevolezza dell’imputato circa la falsità della dichiarazione IVA di cui avrebbe consigliato la sottoscrizione. Inoltre, si assume che la sentenza, nel valutare la sola violazione formale del dovere professionale di cui all’art. 36 del Codice Deontologico Forense, non abbia correttamente interpretato l’art. 380 c.p.) che pretende comunque la lesione dell’interesse della parte assistita, la quale deve ricevere un nocumento dalla condotta del difensore. Peraltro, la sentenza non ha considerato che la condotta del patrocinatore è stata sempre condivisa pienamente dal cliente.

2.1. – In data 17 ottobre 2011 il ricorrente ha depositato motivi nuovi, in cui oltre a ribadire il contenuto del ricorso, ha dedotto l’erronea applicazione del giudizio di comparazione tra circostanze e il connesso vizio di motivazione; inoltre, ha denunciato la sentenza per omessa motivazione in ordine ai beni oggetto di sequestro (personal computers, notebooks e telefoni cellulari).

Motivi della decisione

3. – Le due sentenze di merito concordano sullo svolgimento dei fatti, anche se divergono sulla rilevanza da attribuire al “consiglio” professionale dato dall’imputato al cliente. Infatti, il consiglio di Z. fu nel senso di presentare la dichiarazione IVA per Tanno 2004, continuando ad utilizzare fatture per operazioni inesistenti, per non rendere evidente l’infedeltà delle dichiarazioni precedenti e così evitare una sorta di “confessione” indiretta. A sostegno di tale tesi vengono indicate le dichiarazioni del commercialista R., le dichiarazioni di N. e quelle rese dallo stesso imputato. In particolare, è risultato che la dichiarazione IVA del 2004 venne inviata dal commercialista a N., mentre si trovava ristretto in carcere, e che successivamente venne approvata la spedizione informatica; inoltre, la persona offesa riferisce che su queste scelte influì il consiglio dell’imputato. Rispetto a questa ricostruzione la difesa dell’imputato, con il primo motivo, tenta di offrire una diversa ricostruzione dei fatti e, per smontare la tesi accusatoria, assume il travisamento del contenuto di alcune dichiarazioni, tra cui quelle di R. , di N. e dello stesso imputato. In particolare, si sostiene che il commercialista non avrebbe mai riferito di una decisione di Z. di impedire a N. di avvalersi dei suoi consigli, ma avrebbe fatto riferimento semmai ad ima “mancanza di rapporti” con lo stesso Z.; d’altra parte, si evidenziano le contraddizioni delle dichiarazioni di N. ; infine, si sottolinea che Z. non avrebbe mai affermato di avere consigliato a N. di sottoscrivere la dichiarazione IVA. Invero, le contraddizioni evidenziate si rivelano inidonee a provare il travisamento denunciato. Le dichiarazioni rese da Z. hanno un contenuto difensivo, sicché devono essere valutate nella consapevolezza che provengono da un imputato; le presunte contraddizioni contenute nelle affermazioni di N. e nelle dichiarazioni di R. non appaiono in grado di disarticolare le argomentazioni della sentenza di appello, anzi dalle dichiarazioni rese da quest’ultimo, allegate al ricorso, emerge una sua obiettiva emarginazione nella vicenda della dichiarazione IVA. Pertanto, deve escludersi la sussistenza del denunciato travisamento, in quanto la motivazione appare logica e coerente rispetto agli elementi probatori acquisiti e le rilevate contraddizioni riguardano aspetti secondari, non in grado di disarticolare la struttura argomentativa della sentenza.

4. – Esclusa la contraddittorietà della ricostruzione dei fatti come ritenuti in sentenza, resta da valutare se il “consiglio” dato dall’imputato al suo cliente possa integrare il reato di cui all’art. 380 c.p. Non può accogliersi l’obiezione del ricorrente secondo cui la sentenza non avrebbe dimostrato la consapevolezza dell’imputato circa la falsità della dichiarazione IVA, in quanto lo stesso Z. era a conoscenza delle dichiarazioni infedeli presentate negli anni precedenti a cui quella del 2004 doveva allinearsi. Deve considerarsi integrato il reato di infedele patrocinio in quanto l’obbligo dell’avvocato di difendere gli interessi della parte assistita, incontra il limite dell’osservanza della legge: lo stesso codice deontologico forense, prevede, all’art. 36, che l’assistenza dell’avvocato al proprio cliente deve essere condotta “nel miglior modo possibile”, ma nel limite del mandato ricevuto e “nell’osservanza della legge e dei principi deontologici”. Sicché è del tutto condivisibile la sentenza là dove riconosce che la condotta dell’imputato si è tradotta nell’istigazione a presentare una dichiarazione IVA non veritiera, che costituisce violazione del dovere di correttezza, previsto dalla norma deolontologica, e realizza inoltre il nocumento agli interessi della parte richiesto dalla norma incriminatrice, rappresentato dalla commissione del reato di cui all’art. 2 d.lgs. n. 74 del 2000. Né vale ad escludere la sussistenza del reato il sostanziale consenso che N. ha dato al suo avvocato, sottoscrivendo la dichiarazione secondo le indicazioni di quest’ultimo. Infatti, il consenso deve ritenersi privo di rilevanza e inidoneo ad escludere il reato di cui all’art. 380 c.p., in quanto il criterio di valutazione della condotta del professionista non riguarda l’incarico ricevuto, ma il dovere professionale.

5. – Infine, devono ritenersi inammissibili i motivi nuovi con cui si censura la sentenza in relazione alla presunta erronea applicazione del giudizio di comparazione delle circostanze e al sequestro disposto, in quanto non appaiono inerenti ai temi specificati nei capi e punti della decisione investiti dall’impugnazione principale, mancando una connessione funzionale tra i motivi nuovi e quelli originari (Sez. III, 22.1.2004, n. 14776, Sbragi). Per i restanti motivi valgono le considerazioni svolte in rapporto al ricorso principale. 6. – In conclusione, la infondatezza dei motivi proposti determina il rigetto del ricorso, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

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Ordinanza Trib. sorv. Torino 22 febbraio 2012

REPUBBLICA ITALIANA

Il Tribunale di Sorveglianza di Torino

composto da:

1) Dott. Giuseppe Vignera          Presidente rel.

2) Dott. Monica Cali                   Giudice

3) Dott. Franco Romeo                Esperto

4) Dott. Silvia Morrone               Esperto

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei confronti di  D. G., nato a xxxx il xxxx, detenuto presso la Casa circondariale “Don Soria” di Alessandria, difeso dall’Avv. P. Monti del Foro di Alessandria, nel procedimento di sorveglianza avente ad oggetto l’applicazione di misura alternativa alla detenzione in relazione alla pena di cui al seguente titolo esecutivo: provvedimento di cumulo del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino del 24 novembre 2011.

********

D. G. sta espiando una pena complessiva di anni 3, mesi 6 di reclusione in virtù di un cumulo di pene inflitte con due  condanne: la prima del Tribunale di Alessandria in data 27 maggio 2008 per appropriazione indebita continuata e falsità in scrittura privata continuata (fatti commessi dal 2000 al 2004 con abuso della propria professione di ragioniere); e la seconda per  associazione per delinquere, falsificazione continuata ed indebito utilizzo continuato di carte di credito con l’aggravante del crimine transnazionale (fatti commessi dal 2004 al luglio 2009 nella sua qualità, tra l’altro, di consulente fiscale del “xxxx”, night club di Alessandria).

Applicato l’indulto e dedotto il presofferto, la pena residua da espiare risulta pari ad anni 1, mesi 9 e giorni 1 di reclusione.

L’esecuzione della pena, iniziata il 18 novembre 2011, terminerà il 18 agosto 2013.

Il detenuto ha chiesto l’affidamento in prova al servizio sociale o la detenzione domiciliare, deducendo l’esistenza di sostegni affettivi (rappresentati dall’anziana madre e dalla sorella) e la possibilità di continuare a svolgere la sua attività libero-professionale (ragioniere commercialista).

I Carabinieri di Alessandria hanno comunicato che:

– presso l’abitazione familiare (sita in xxxx, Via xxxx n. 68) il D. svolgeva pure la sua attività di ragioniere prima dell’arresto;

– il predetto ha sempre rispettato le prescrizioni inerenti alle misure cautelari (arresti domiciliari ed obbligo di presentazione alla P.G.) applicategli durante il procedimento di merito;

– non esistono controindicazioni da parte dei familiari circa l’accoglienza del congiunto.

La relazione di sintesi evidenzia:

  • la formale correttezza della condotta del D.  nel breve periodo di detenzione;
  • la mancata espletazione di attività trattamentali strutturate;
  • l’assoluta mancanza di revisione critica in ordine ai reati commessi (“Il soggetto si è espresso con un linguaggio tecnico che ha impedito la piena comprensione della dinamica dei fatti, anche se sostiene di essere estraneo a quanto contestatogli, nonostante sia indicato dai gestori del menzionato locale come il solo responsabile dei fatti … Dimostra un basso livello di responsabilità, tanto che sistematicamente tende a proiettare la colpa delle proprie azioni su altri. I reati attribuiti sono strettamente attinenti all’ambito lavorativo di appartenenza del D. dove, in qualità di consulente fiscale, ha ricoperto un ruolo di elevata responsabilità tecnica … I delitti contestati sono stati realizzati in un contesto caratterizzato da ingenti disponibilità finanziarie e da una particolare destrezza nelle transazioni finanziarie da parte degli autori”).

La stessa, pertanto, così conclude: “Si ritiene che l’applicazione di una misura alternativa alla detenzione non possa prescindere da una revisione critica del reato che, allo stato dell’osservazione, non si può considerare sufficiente in considerazione dell’aggravante relativa al crimine transnazionale addebitato. Pertanto, al fine di agevolare una focalizzazione delle responsabilità del D. si propone l’intervento di un esperto ex art. 80 O.P. che favorisca una rielaborazione dei suoi trascorsi e consenta di valutare l’affidabilità in riferimento ai futuri benefici penitenziari”.

Queste condivisibili conclusioni impongono il rigetto delle domanda unitamente alle seguenti considerazioni:

  • la dedotta opportunità lavorativa del soggetto avrebbe nella fattispecie scarsa valenza rieducativa, atteso che tutti i reati di cui al titolo esecutivo sono collegati proprio all’attività libero-professionale del condannato;
  • pure gli invocati sostegni affettivi ed abitativi esistevano già all’epoca di commissione dei reati di cui al titolo esecutivo e, pertanto, rappresentano un dato “neutro” ai fini della valutazione della rieducazione del reo;
  • alle “potenzialità enormemente lucrative” dei reati di cui alla sentenza del GIP del Tribunale di Torino in data 11 aprile 2011 non è corrisposta alcuna attività restitutoria o riparatoria da parte del D. (unica attività che nella fattispecie potrebbe rappresentare un concreto indice di effettivo avvio del percorso di rieducazione e/o di effettiva revisione critica da parte del condannato in ordine ai reati accertati con codesta sentenza), il quale pertanto non appare sotto alcun  profilo meritevole di benefici penitenziari e/o di misure alternative alla detenzione: misure che allo stato servirebbero ad assicurare (non la “rieducazione” del condannato rispetto a modelli di vita socialmente adeguati, ma soltanto) il concreto godimento od il consolidamento dei risultati economici dei crimini commessi dal detenuto.

Si osserva ancòra al riguardo quanto segue.

Pur senza contestare la validità scientifico-culturale delle metodologie e delle categorie di pensiero usualmente utilizzate dagli organi dell’Amministrazione penitenziaria preposti (all’interno o all’esterno degli istituti di pena) alle attività di osservazione e di trattamento dei condannati, dalla stessa Magistratura di sorveglianza e persino  dalla Corte di cassazione  nell’occuparsi  del “disadattamento sociale” del reo in funzione del suo superamento o ridimensionamento con l’ausilio delle misure alternative alla detenzione [metodologie e categorie concettuali che non di rado non si discostano molto da quelle rinvenibili negli  “originari” studi  criminologi e sociologici delle società preindustriali e/o industriali avviati nell’Europa occidentale e del Nord-America negli ultimi anni del 1800 e nei primi decenni del 1900]; e pur senza contestare quella concezione (che in modo quasi sempre inespresso ispira quelle metodologie e quelle categorie) postulante una sorta di “diffusività collettiva, generale ed indiscriminata del fenomeno” (come se il “disadattamento sociale” costituisse una condizione connaturale ad ogni essere umano dopo la perdita dei dona praeternaturalia goduti nell’Eden: se si vuole essere realistici, invero,  ed a prescindere dall’area dei soggetti portatori di problematiche di tipo psichiatrico, nella società italiana il fenomeno de quo sembra attualmente interessare prevalentemente l’area dell’immigrazione irregolare, quella dell’emarginazione nelle periferie metropolitane e quella della conflittualità endofamiliare); pur senza contestare tutto questo, sta di fatto che il “disadattamento sociale” di una determinata persona chiamata ad espiare una pena detentiva (scilicet, al momento della condotta criminosa e quale suo potenziale coefficiente) non può presumersi sempre e comunque, ma deve avere precisi elementi rivelatori: deve, cioè,  (quanto meno) essere indiziariamente verosimile.

Tale “disadattamento”, poi, deve tendenzialmente escludersi quando (ed ancor più in assenza dei predetti elementi rivelatori) risulta che all’epoca della consumazione dei reati la persona disponeva di adeguate risorse culturali, affettive, abitative, economiche et similia (come è accaduto del caso sub iudice).

Pertanto, rispetto a reati commessi per finalità di arricchimento personale da  un soggetto che all’epoca della consumazione dei reati stessi disponeva di tutte codeste risorse, l’avvio della sua revisione critica ed il conseguente ridimensionamento della sua pericolosità sociale possono normalmente considerarsi effettivi  (e giustificare la concessione di benefici penitenziari) solo in presenza di congrue attività riparatorie e/o restitutorie delle utilità economiche costituenti il  prezzo, il prodotto o il profitto del reato: attività che nella fattispecie non risultano essere state compiute.

P.Q.M.

rigetta l’istanza.

Torino, 22 febbraio 2012

Il Presidente estensore

dr. G. Vignera

 
 

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sentenza n. 33748 – 12 luglio 2005 ( Mannino )

Sentenza n. 33748 del 12 luglio 2005 – depositata il 20 settembre 2005
(Sezioni Unite Penali, Presidente N. Marvulli, Relatore G. Canzio)
RITENUTO IN FATTO
1. — Calogero Mannino deve rispondere del delitto di concorso eventuale nell’associazione mafiosa Cosa nostra, “per avere – avvalendosi del potere personale e delle relazioni derivanti dalla sua qualità di esponente di rilievo della Democrazia Cristiana siciliana, di esponente principale di una importante corrente del partito in Sicilia, di segretario regionale del partito nonché di membro del consiglio nazionale dello stesso – contribuito sistematicamente e consapevolmente alle attività e al raggiungimento degli scopi criminali di Cosa nostra, mediante la strumentalizzazione della propria attività politica, nonché delle attività politiche ed amministrative di esponenti della stessa area, collocati in centri di potere istituzionale (amministratori comunali, provinciali e regionali) e sub-istituzionali (enti pubblici e privati) onde agevolare la attribuzione di appalti, concessioni, licenze, finanziamenti, posti di lavoro ed altre utilità in favore di membri di organizzazioni criminali di stampo mafioso. Con le aggravanti costituite dall’essere Cosa nostra un’associazione armata volta a commettere delitti, nonché ad assumere e mantenere il controllo di attività economiche mediante risorse finanziarie di provenienza delittuosa. In territorio di Agrigento, Trapani, Palermo e altrove, fino al 28/9/1982 (art. 110 e 416 cod. pen.) e poi fino al marzo 1994 (art. 110 e 416 bis cod. pen.)”.
Il Tribunale di Palermo, dopo avere postulato per la configurabilità della fattispecie criminosa la necessità di individuare concrete, positive e sistematiche condotte aventi rilevanza causale in ordine al rafforzamento dell’organizzazione mafiosa, accompagnate dalla consapevolezza e volontà del contributo apportato, e avere esaminato analiticamente, in successione cronologica, una serie di episodi di cui il Mannino era stato protagonista per un arco temporale di quasi un ventennio dal 1974 al 1994, è pervenuto con sentenza del 5/7/-29/12/2001 all’assoluzione dell’imputato con la formula di cui all’art. 530 comma 2 cod. proc. pen. “perché i fatti non sussistono”, non essendo emersi all’esito dell’istruzione dibattimentale certi e sufficienti elementi di prova di responsabilità a carico dello stesso. Le condotte dell’imputato, esaminate seguendo la cronologia degli eventi, pur non essendo esenti da censurabili legami e rapporti non occasionali fin dalla seconda metà degli anni ’70 con esponenti delle famiglie mafiose agrigentina e palermitana di Cosa nostra, sarebbero interpretabili in chiave di “vicinanza” e “disponibilità”, secondo una casuale di tipo elettorale-clientelare o anche corruttiva, ma non quali contributi di favore destinati al consolidamento dell’organizzazione mafiosa, sì che in esse, non essendo espressione di un sistematico rapporto sinallagmatico fra Mannino e Cosa nostra, non sarebbero configurabili gli elementi costitutivi del concorso esterno. Specificamente:
a) I rapporti con Nino e Ignazio Salvo. L’episodio più risalente nel tempo riguardava la pretesa condotta agevolatrice nei confronti dei Salvo, gestori di numerose esattorie comunali, della cui collocazione mafiosa l’imputato sarebbe stato a conoscenza, al fine di contribuire al rafforzamento di Cosa nostra. I fatti individuati dal P.M. come espressione di “appoggio” ai Salvo (anche sulla base delle generiche e indirette dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pennino, Siino e Lanzalaco, per i quali il Mannino avrebbe aiutato i Salvo quando rivestiva la carica di assessore regionale alle finanze) risalirebbero al 1974 e consisterebbero: nell’avere affidato ai Salvo la gestione della ricca esattoria di Siracusa, un tempo concessa alla Langione s.r.l., mediante un surrettizio accorpamento ad essa delle esattorie vacanti e più povere, sparse su tutto il territorio regionale e distanti da Siracusa, così da dissuadere il Langione, non munito di adeguato apparato organizzativo, dal riconfermare la richiesta di aggiudicazione; nonché nel non avere promosso una riforma legislativa in campo esattoriale che, consentendo di affidare il servizio di riscossione delle imposte a enti pubblici o a istituti bancari, privasse i Salvo della egemonia posseduta con aggi superiori al resto d’Italia.
La sentenza di primo grado, riassunta la situazione normativa riguardante il servizio di riscossione dei tributi affidato in Sicilia ad esattori privati e considerato che nel regolamentare la materia la Regione, con l. 21/12/1974 n. 40 proposta dal Mannino e approvata quasi all’unanimità, deliberò l’accorpamento delle esattorie povere e vacanti a quelle ricche e la riduzione graduale della misura degli aggi secondo il d.p.R. 29/9/1973 n. 603 (decreto Visentini), concludeva che la disciplina regionale, anziché configurarsi come agevolatrice dei Salvo, fosse finalizzata al perseguimento dell’interesse pubblico. Si sarebbe potuto individuare una condotta di favore nel conferimento ai Salvo della gestione dell’esattoria di Siracusa, in forza del criterio di aggregazione delle esattorie povere e vacanti a quelle ricche, ma tale favore non aveva peso determinante, mancando all’epoca la consapevolezza dell’organica appartenenza dei Salvo a Cosa nostra (secondo la significativa testimonianza dell’on. Mattarella) e sembrando l’episodio ascrivibile ad una logica di mediazione tra gli interessi del gruppo imprenditoriale e l’interesse pubblico. Sarebbero ancora riconducibili alla logica dei rapporti “istituzionali” e alla generale e deprecabile prassi “clientelare” di relazioni tra pubblico amministratore e imprenditori le assunzioni di tre soggetti “raccomandati” dal Mannino nelle aziende dei Salvo.
b) I rapporti con Cosa nostra di Agrigento. Nella roccaforte agrigentina (giusta le convergenti dichiarazioni dei collaboratori Virone, Leto, Di Carlo, Siino e Bono Benedetta) non sarebbero mancati fin dalla metà degli anni ’70 i contatti del Mannino con esponenti di vertice della locale cosca mafiosa quali Salemi, Settecasi, Colletti, De Caro, Vella. Ma, in assenza di prova di specifiche condotte intese a favorire Cosa nostra, detti rapporti e i singoli episodi di partecipazione a taluni incontri con questi personaggi (il 10/9/1977 testimone alle nozze Caruana; nel dicembre 1978 ospite ad un pranzo di ufficiali medici presso la Taverna Mosè cui era presente Settecasi; tra il 1979 e il 1980 incontro con Salemi a Roma, per la concessione di un subappalto dalla soc. Icori alla soc. Samovi facente capo al primo, per il quale non erano emersi elementi idonei a corroborare la veridicità dell’assunto indiretto di Virone di un interessamento del politico; il 29/8/1988 testimone alle nozze della figlia di Di Maida, già segretario provinciale della D.C. e imparentato con esponenti mafiosi agrigentini, giustificata dalla comune militanza nello stesso partito), andavano tutti letti in chiave elettorale-clientelare e valutati in termini di “vicinanza” politica a Mannino delle famiglie mafiose in quel contesto provinciale che costituiva la base del suo elettorato.
c) Il patto elettorale politico-mafioso risalente al 1980-1981. In relazione agli incontri con Gioacchino Pennino (segretario della sezione D.C. di Palermo-Brancaccio, della corrente cianciminiana, e uomo d’onore “riservato” della famiglia di Brancaccio) e con Antonio Vella (esponente della cosca agrigentina), che secondo l’attendibile e riscontrata versione di Pennino sarebbero serviti per gettare le basi di un accordo elettorale diretto all’espansione del Mannino dal feudo di Agrigento al territorio palermitano, fino ad allora dominato dalle correnti degli on. Lima e Ciancimino, la sentenza riconosce al patto una precisa connotazione mafiosa per la genesi degli incontri e per i ruoli e gli atteggiamenti dei protagonisti. Vella, accompagnato da Salvatore Lattuca, uomo di rango della famiglia agrigentina, aveva incontrato Pennino prima presso l’abitazione di Giuseppe Di Maggio, capo della famiglia di Brancaccio, e poi presso il suo studio, al fine di metterlo in contatto col Mannino; al di fuori dell’esigenza di implicare l’avallo di esponenti di Cosa nostra non vi era alcuna necessità di intermediazione per organizzare l’incontro, stante la pregressa conoscenza e vicinanza politica da parte del Mannino sia di Pennino che di Vella; nel corso dell’incontro svoltosi tra i tre personaggi presso l’abitazione del Mannino, questi aveva chiesto esplicitamente a Pennino un “aiuto elettorale” nell’area palermitana in vista delle successive competizioni politiche, ricevendone la promessa di attivarsi in suo favore, mentre a sua volta egli sarebbe stato “disponibile” nei confronti dei suoi sostenitori; altri incontri tra i tre sarebbero seguiti nel medesimo arco temporale per ribadire l’accordo, in esecuzione del quale Pennino s’era attivato nella competizione elettorale del 1983, fornendo ai compagni di partito della zona di Brancaccio, anche secondo la deposizione del collaborante Cannella, l’indicazione di sostenere la candidatura del Mannino e spostando “alcune migliaia di voti” di preferenza (che passavano da n. 38593 a n. 55069).
La sentenza di primo grado ha escluso tuttavia che in questo episodio, collocabile intorno agli anni 1980-1981, potessero ravvisarsi, di per sé, gli estremi del concorso esterno, sul rilievo che non vi era prova che l’accordo di natura elettorale, stipulato dal Mannino con esponenti mafiosi delle famiglie agrigentina e palermitana, sconoscendosene il preciso contenuto, avesse avuto ad oggetto, oltre la generica “vicinanza” e “disponibilità”, la promessa dell’imputato di svolgere specifiche attività di rilevanza causale per il rafforzamento del sodalizio criminoso, anziché l’esecuzione di prestazioni di interesse personale di singoli mafiosi quale corrispettivo dell’appoggio elettorale ricevuto. Si è sottolineato che, pur volendo accedere alla tesi secondo cui la semplice promessa basterebbe a configurare il reato, mancherebbe la prova relativa all’effettivo contenuto della promessa, elemento decisivo per valutarne la serietà e l’intrinseca rilevanza causale. Il significato meramente indiziario dell’episodio comportava dunque l’esigenza di individuare ulteriori e successive condotte dell’imputato e di accertare se esse potessero interpretarsi come consapevolmente dirette a offrire un contributo per il rafforzamento di Cosa nostra in esecuzione del patto, sì da poterne inferire elementi chiarificatori del suo contenuto.
d) La vicenda Mortillaro. Circa l’assunzione nel luglio 1983 di Antonino Mortillaro, esponente della famiglia di Palermo centro, presso un ufficio periferico del Ministero dell’agricoltura, la sentenza di primo grado, facendo leva sulla circostanziata deposizione di Pennino che aveva presentato Mortillaro a Mannino come possessore di un pacchetto di voti nell’area palermitana, ha sottolineato come l’immediata attivazione del politico per trovare un posto di lavoro a Mortillaro, importante collettore di voti in contatto con un rilevante numero di persone, fosse legata al ruolo che lo stesso aveva svolto nel 1983 e avrebbe potuto in futuro svolgere a suo favore nelle competizioni elettorali. Di talché, attesa anche la non accertata consapevolezza da parte del Mannino dello spessore mafioso di Mortillaro, non vi era prova che l’assunzione di questi, al di fuori dello schema della raccomandazione legata alla causale elettorale-clientelare posta a base del patto Mannino-Pennino-Vella, avesse agevolato il rafforzamento di Cosa nostra.
e) Gli appalti di opere pubbliche. All’imputato è stato contestato di avere tenuto condotte di favore nei confronti di esponenti della imprenditoria siciliana, agevolando sistematicamente l’aggiudicazione di finanziamenti o comunque interagendo nel corso delle procedure relative agli appalti di opere pubbliche, consapevole del beneficio economico che Cosa nostra traeva in un settore in cui esercitava l’imposizione mafiosa attraverso la “messa a posto” e la “protezione” oppure, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, mediante accordi di vertice con gli imprenditori di maggior rilievo. Il ruolo attribuito dall’accusa all’imputato non era quello di avere concretamente gestito singoli appalti insieme con l’imprenditore agevolato e con l’associazione mafiosa (Siino ha escluso di avere mai incontrato il Mannino, il quale non sarebbe entrato in rapporti diretti con Cosa nostra), bensì di avere presieduto “a monte” ad una generale politica di indirizzo, programma e gestione dei finanziamenti, statali e regionali, sì da canalizzare l’aggiudicazione degli appalti a singoli imprenditori compiacenti, nella comune consapevolezza dei componenti dell’accordo dei reciproci vantaggi economici e in particolare degli enormi benefici che Cosa nostra traeva, direttamente o indirettamente, dal sistema “generalizzato” di spartizione degli appalti di opere pubbliche.
L’ipotesi accusatoria, prospettata alla stregua di tale modello totalizzante di accordi tra politici, imprenditori (che, a fronte dell’aggiudicazione dei lavori, versavano una quota ai politici e un’altra a Cosa nostra) e mafiosi, nei termini descritti negli aspetti d’assieme dai collaboranti Siino e Brusca (i quali, incaricati di occuparsi degli appalti per conto di Cosa nostra, hanno distinto l’ “accordo provincia” di Palermo dagli “accordi in campo regionale”, gestiti quest’ultimi dall’imprenditore agrigentino Filippo Salamone per investitura diretta della mafia), è stata sottoposta a severo vaglio critico da parte del Tribunale. Ritenuta l’inidoneità probatoria delle dichiarazioni di Lanzalaco e Salamone per la genericità del racconto circa le linee del sistema, oltre l’ammissione di rapporti a tenore corruttivo tra politici e imprenditori, sono state attentamente analizzate le singole vicende oggetto di contestazione, al fine di identificare il tenore dei legami dell’imputato con i singoli imprenditori, in particolare con Salamone e Antonio Vita, e di quest’ultimi con Cosa nostra, e quindi di verificare se specifiche condotte compiacenti del Mannino potessero configurare, direttamente o indirettamente, al di là dei connotati corruttivi connessi alle tangenti asseritamente versategli per l’aggiudicazione degli appalti, consapevoli contributi di agevolazione della mafia tramite i favori fatti agli imprenditori collusi con la stessa.
e1) La vicenda SITAS. Il primo episodio in materia di appalti riguardava la soc. Sitas, che s’era occupata della costruzione di un insediamento alberghiero in territorio di Sciacca. L’iniziativa, partita da un gruppo di imprenditori di Abano Terme nel 1973, si era conclusa nel 1988 rivelandosi finanziariamente disastrosa per gli imprenditori e per l’erario regionale. La sentenza di primo grado, alla luce delle deposizioni dei testi Rossetto, Voltolina, Mioni, Valenti e della documentazione acquisita, ha riconosciuto una forte ingerenza dell’imputato, all’epoca assessore regionale alle finanze, nella scelta dei mediatori, dei notai e del legale, per le assunzioni e i corsi di addestramento del personale, nonché per l’affidamento a trattativa privata dei lavori alle imprese Salamone, Vita, Brucculeri e Pullara (le prime due, secondo l’accusa, colluse con Cosa nostra), facenti parte di un consorzio temporaneo di imprese. Ma questo comportamento è stato letto in chiave politico-clientelare e corruttiva, non di contributo all’organizzazione mafiosa, essendo finalizzato alla promozione dell’immagine del Mannino nella sua roccaforte elettorale. Salamone e Vita non erano d’altra parte negli anni ’70 in rapporti di collusione ma di vessazione estorsiva con la mafia, essendo documentati attentati intimidatori ai loro cantieri finalizzati al “pizzo”, alla “messa a posto” o alla “protezione”, proseguiti nonostante l’intervento del Mannino presso il capomafia Colletti (teste Siino). Appariva dunque verosimile che la causale giustificativa dell’interessamento a favore delle imprese consorziate fosse di tipo corruttivo, emergendo dalle deposizioni di Rossetto e Siino la figura del Mannino come percettore di tangenti dagli imprenditori favoriti nell’affidamento dei lavori, tanto che egli aveva opposto un netto rifiuto alla partecipazione della famiglia Cuntrera all’affare Sitas, pure sollecitata dal capomafia De Caro tramite il canale Siino-Vita.
e2) I rapporti con Filippo Salamone e Antonio Vita. Partendo dall’ipotesi accusatoria che Mannino avrebbe favorito Cosa nostra attraverso condotte agevolatrici nei confronti dei singoli imprenditori, consapevole della loro collusione con il sodalizio criminoso, la sentenza passava ad esaminare i rapporti del Mannino con Salamone e Vita, figure originarie dell’agrigentino, non inserite organicamente in Cosa nostra ma imputate in altri procedimenti di concorso esterno in associazione mafiosa, in relazione alla gestione degli appalti pubblici in Sicilia dalla metà degli anni ’80 all’inizio degli anni ’90.
Dall’analisi della vicenda Sitas emergeva che i rapporti dei due imprenditori con la mafia erano strutturati fino alla metà degli anni ’80 in termini di protezione-estorsione e non di contiguità. Nel 1988-89 secondo Siino o nel 1991 secondo Brusca si sarebbe invece verificato un salto di qualità nei rapporti fra mafia e imprenditoria nel campo dei lavori pubblici, rappresentato dal c.d. accordo del tavolino, concluso tra Salamone, Antonino Buscemi, boss di Passo di Rigano, Pino Lipari e l’ing. Giovanni Bini del gruppo Ferruzzi. Il sistema spartitorio prevedeva vere e proprie percentuali dall’imprenditoria alla politica a titolo di tangenti, da cui veniva decurtata una subpercentuale di spettanza della mafia. Salamone, divenuto referente di Cosa nostra, avrebbe svolto funzioni di raccordo consentendo a Buscemi ed alle imprese da costui controllate di aggiudicarsi gli appalti di volta in volta richiesti, acquisendone le garanzie mafiose e trasmettendogli mediante Bini una somma di denaro (la “messa a posto” preventiva) destinata alle casse di Cosa nostra, pari allo 0,80% del finanziamento ottenuto dagli imprenditori vincitori delle gare; ogni impresa avrebbe poi regolato “a valle” i rapporti con le famiglie locali mediante il pagamento del “pizzo” o “zona”. Essendo stato arrestato Siino nel 1991, l’accordo avrebbe avuto peraltro applicazione solo per i lavori nel settore idrico gestiti dal Consorzio Basso Belice Carboj.
Circa il grado di consapevolezza che i politici e in particolare Mannino potevano avere del patto mafioso in cui sarebbe stato coinvolto alla fine degli anni ’80 Salamone, ha sottolineato la sentenza di primo grado come questi, Siino e Brusca abbiano fatto esplicito riferimento a “tangenti” percepite dal Mannino almeno a partire dal 1986 e Siino, sia pure indirettamente e sul punto non riscontrato da altri elementi di prova, anche a lamentele del Mannino e dell’on. Nicolosi per la sopravvenuta decurtazione delle percentuali delle tangenti (“portava meno soldi nelle casse dei politici”). Mancava tuttavia la prova diretta e specifica che l’imputato, al di fuori della causale corruttiva, fosse al corrente del nuovo ruolo assunto da Salamone e dell’accordo del tavolino, risultando carenti i riscontri alla sua asserita consapevolezza che la decurtazione dell’importo delle tangenti, a favore della componente mafiosa, fosse conseguenza di un’intesa di vertice e dell’attribuzione a Salamone della funzione di raccordo fra politici, imprenditori e mafia e quindi di agevolazione dei fini di Cosa nostra.
Altro elemento di distonia rispetto alla prospettazione accusatoria era costituito dall’accertato deterioramento dei rapporti tra il Mannino e Salamone dopo il 1988, nella stagione culminante della relazione collusiva dell’imprenditore con la mafia secondo il racconto di Siino, e più in generale dalla circostanza, risultante dalla vicenda Rossano di cui si dirà appresso, che l’imputato, pur considerato il referente politico nella zona interessata e fino ad allora partecipe, sulla base della causale corruttiva, dei proventi derivati dall’affidamento delle opere idriche ad un’associazione di imprese di cui facevano parte Salamone e Vita, in relazione al lasso temporale successivo al 1988 non era più al corrente delle vicende gestionali del Consorzio di bonifica Basso Belice Carboj: unico esempio, questo, di applicazione dell’accordo del tavolino.
Quanto ai rapporti personali e di amicizia tra Mannino e Vita, il giudice di primo grado ha evidenziato come l’imprenditore non fosse entrato in causa nel citato accordo del tavolino, essendo ricollegabile a tale contesto solo per i rapporti di amicizia e societari con Salamone, mentre, secondo Siino, egli si sarebbe limitato a svolgere un ruolo di mediazione tra lo stesso collaboratore e l’imputato in una serie di episodi ritenuti scarsamente significativi ai fini della configurabilità del reato, quali: l’acquisto di un terreno in Licata; la vicenda Sitas; la vicenda Rossano di cui si dirà appresso; la campagna elettorale del 1991 a favore di Cuffaro; la sollecitazione per l’inserimento nelle liste elettorali di Muratore Maurizio, legato al gruppo Ferraro-Inzerillo; gli attentati di Sciacca del 1990-1991, per i quali l’imputato, con l’intermediazione di Vita, avrebbe chiesto a Siino se potesse fare qualcosa. Per quest’ultima vicenda Siino si sarebbe rivolto a Giovanni Brusca, insieme al quale si sarebbero recati dal capomafia saccense Di Ganci che aveva risposto di non saperne nulla (la responsabilità dell’attentato, in un colloquio in carcere con Siino, sarebbe stata poi assunta da Giuseppe Grassonelli per conto della Stidda). La sentenza ha evidenziato la carenza del riscontro di Brusca alle dichiarazioni di Siino circa l’incontro con Di Ganci, la possibilità di una causale autonoma che avrebbe determinato Vita a muoversi verso Siino, cioè la preoccupazione che si alterassero situazioni consolidate nell’esecuzione dei lavori nella zona di Sciacca, e comunque la mancanza di prova di qualsiasi condotta di favore del Mannino verso la famiglia saccense, dimostrata dall’ignoranza dell’imputato circa l’esatta provenienza degli atti intimidatori, che non si coniugava con una pretesa contiguità mafiosa, e dall’attivazione di ulteriori canali istituzionali.
e3) I rapporti con Lorenzo Rossano. L’episodio, concernente la concessione di un subappalto a Rossano per la fornitura di apparecchiature elettroniche per gli impianti idrici del Consorzio Basso Belice Carboj, costituiva uno dei casi di intermediazione di Vita tra Mannino e Siino, indicativo, secondo l’accusa, di una vicinanza dell’imputato al collaboratore. Rossano, che intendeva aggiudicarsi un subappalto in quel settore, su suggerimento di Cuffaro aveva invitato il Mannino alla cerimonia di inaugurazione della propria azienda nel 1989; questi aveva prospettato a Rossano la possibilità di fargli ottenere un subappalto nell’ambito dei lavori affidati al Consorzio mettendolo in contatto con il direttore tecnico ing. Vetrano, senza richiedergli come contropartita alcuna tangente, tanto che Cuffaro, richiesto delle ragioni di tale interessamento, aveva rilevato che il Mannino era rimasto deluso dal comportamento di alcuni imprenditori agrigentini, in particolare di Salamone che aveva appoggiato in passato e che ora gli aveva voltato le spalle. I successivi incontri di Rossano con Vetrano e Salamone si rivelarono negativi essendosi entrambi mostrati ostili alla realizzazione del progetto; seguirono, con l’intermediazione di Vita, gli incontri con Siino, ma dopo l’arresto di questi la trattativa non fu conclusa. Il giudice di primo grado riteneva provato che Vita avesse avuto incarico dal Mannino di perorare la causa di Rossano, ma non anche di contattare Siino, col quale non aveva alcun rapporto. Da quest’episodio si desumeva inoltre che in relazione alle attività del Consorzio si era formato un gruppo di potere, costituito da Salamone, Vetrano e Argiroffi, direttore del raggruppamento di imprese aggiudicatarie dei lavori, rispetto alle cui scelte operative il potere di interferenza del Mannino era minimo. Il che avrebbe confermato l’esclusione dell’imputato dagli equilibri sanciti con l’accordo del tavolino e l’avvenuto distacco dalle recenti logiche imprenditoriali, segnate dal salto di qualità di Salamone in favore dell’organizzazione mafiosa, nonostante il persistere di versamenti a favore del politico in un’ottica meramente corruttiva.
f) I rapporti con i “cianciminiani” e con Pietro Ferraro e Vincenzo Inzerillo. Nel contesto degli anni 1985/1991 erano addebitate al Mannino talune scelte di natura correntizia, dalle quali l’accusa intendeva trarre argomenti interpretativi della volontà di agevolare Cosa nostra: in particolare, la cooptazione nella corrente manniniana del gruppo palermitano facente capo a Vito Ciancimino, compromesso con la giustizia per la sua contiguità con la mafia e l’utilizzo, al fine di intensificare la sua presenza in Palermo e Trapani, di personaggi di spessore mafioso quali il notaio Ferraro e il politico Inzerillo.
Premesso che da nessuno dei collaboratori di giustizia (Di Carlo, Cannella, Cancemi, Pennino, Mutolo, Drago, Marchese, Siino e Brusca) erano pervenute indicazioni circa rapporti personali o di conoscenza ovvero circa specifiche condotte per favorire esponenti della famiglia palermitana di Cosa nostra, il giudice di primo grado, sulla base del racconto di Pennino, ha posto in rilievo la natura esclusivamente correntizia del transito dei cianciminiani nella corrente manniniana in occasione delle elezioni regionali del 1991; all’interno del gruppo, nei confronti del quale anche l’on. Donat Cattin aveva manifestato un certo interesse, militavano personaggi esenti da sospetti di contiguità insieme ad altri di spessore mafioso, come Lo Jacono e Zarcone, con i quali però non vi era prova di contatti personali né tanto meno della consapevolezza da parte dell’imputato della loro valenza mafiosa.
Per quanto riguardava i rapporti con Ferraro e Inzerillo, in particolare nel periodo della campagna elettorale del 1992, Pennino riferisce dell’esistenza di un comitato di affari composto da Ferraro, Inzerillo, Zarcone e Muratore, basato su accordi di natura clientelare rispetto ai quali non vi era tuttavia prova che il Mannino avesse interagito.
Il notaio Ferraro, imputato dello stesso reato per un’asserita disponibilità nei confronti di Cosa nostra e legato da rapporti di amicizia con Inzerillo, assessore comunale e poi senatore, aveva attivamente sostenuto a Palermo e nel trapanese la candidatura Mannino cui era politicamente vicino; ma, al di là del sostegno elettorale e di contatti di tipo clientelare, non erano emerse condotte di favore compiute dal notaio per agevolare l’organizzazione mafiosa che fossero indirettamente riferibili alla posizione dell’imputato. Da un lato, il tentativo di aggiustamento del processo Basile sarebbe stato eseguito da Ferraro nei confronti del dott. Scaduti, presidente della Corte di assise, per conto non di Mannino ma di un “deputato dell’area manniniana trombato” o di “Enzo” Inzerillo; dall’altro, l’intermediazione di Ferraro nei primi anni ’90 per un finanziamento di sei miliardi da parte del Ministero dell’agricoltura diretto dal Mannino, per agevolare la vendita di una cantina agricola di Bono Pietro (per la quale era stabilita una tangente di cinquecento milioni, di cui i primi cinquanta versati subito alla consegna di un nulla osta ministeriale), pure a prescindere dall’archiviazione del relativo procedimento instaurato sulla base delle dichiarazioni del collaboratore Bono, della cui valenza mafiosa il Mannino non poteva dirsi consapevole, non aveva visto come protagonisti l’imputato né l’associazione mafiosa.
Quanto ai rapporti fra il Mannino e Inzerillo, la sentenza di primo grado ha evidenziato la funzione di raccordo svolta da Ferraro tra i due esponenti democristiani con l’avvicinamento delle posizioni politiche culminato nella candidatura e successiva elezione nel 1992 di Inzerillo al Senato nella corrente manniniana. Sulla pretesa mafiosità di quest’ultimo si sottolineavano la non definitività della sentenza di condanna e la dubbia consapevolezza da parte del Mannino della sua caratura mafiosa, atteso che anche altri qualificati esponenti democristiani, come gli on. Orlando e Mattarella, avevano escluso ogni sospetto di collusione mafiosa. Si rammentava anche il contenuto di una conversazione riferita da Pennino, nel corso della quale il Mannino gli aveva chiesto se Inzerillo poteva conquistare il seggio senatoriale, domanda alla quale Pennino aveva risposto cercando di sminuire la forza elettorale di Inzerillo, già compromesso con Cosa nostra, per indurre il Mannino a non candidarlo, evitando così il suo coinvolgimento in eventuali problemi giudiziari: il dubbio esternato a Pennino sarebbe incompatibile con la volontà di favorire Cosa nostra attraverso la candidatura di Inzerillo e dimostrerebbe che i rapporti tra il Mannino e Pennino erano ispirati solo a ragioni clientelari-elettorali. Circa l’episodio riguardante l’aggiudicazione di un appalto avente ad oggetto la metanizzazione della città di Palermo, per il quale Siino era entrato in contatto con Inzerillo per acquisirne la disponibilità, quale espressione della corrente manniniana, se ne è esclusa ogni valenza per la persona dell’imputato, proprio perché rimasto estraneo alla vicenda.
g) I rapporti con la famiglia mafiosa di Sciacca. Le intercettazioni ambientali eseguite tra il 1992 e il 1993 di conversazioni tra alcuni personaggi (Ambla, Dimino, Leggio e Messana) appartenenti alla cosca di Sciacca, cittadina cui Mannino era legato da motivi familiari ed elettorali, con riferimento a episodi coevi o riferibili agli anni precedenti, consentivano di accertare la “vicinanza” dell’imputato ad esponenti di quella famiglia capeggiata da Di Ganci. Mancavano tuttavia elementi di prova certi per l’individuazione di specifici “favori” e della rilevanza causale degli stessi per il rafforzamento di Cosa nostra, evidenziandosi anzi dalle intercettazioni un distanziamento di posizioni tra l’imputato e la famiglia saccense nei primi anni ’90, rispetto alla maggiore “disponibilità” e “vicinanza” manifestate in passato. E tale ricostruzione probatoria era confortata dalle dichiarazioni di Siino, che aveva fatto generico riferimento ad “acquisizioni di posti o qualche favore” senza alcuna nota significativa per gli interessi dell’associazione, e di Brusca, il quale, nonostante il ruolo di vertice di Cosa nostra e gli stretti contatti con la mafia agrigentina e saccense per la materia degli appalti, non aveva saputo indicare se vi fossero stati rapporti tra Di Ganci e l’imputato ed anzi aveva affermato, più in generale, di non essere a conoscenza di eventuali favori fatti da Mannino a Cosa nostra.
h) Gli atti intimidatori del 1992. Oltre l’attentato incendiario alla segreteria di Sciacca del dicembre 1990, riferito nell’ambito dei contatti Vita-Siino e di cui si dirà ancora a proposito dei rapporti con la Stidda, il Mannino ebbe a subire nel 1992 una serie di atti intimidatori che, ad avviso dell’accusa, erano da riconnettere alla strategia stragista di Cosa nostra diretta a punire i politici che avevano fatto promesse poi non mantenute, com’era avvenuto per Ignazio Salvo e per l’on. Lima.
La sentenza di primo grado, alla luce delle propalazioni di Brusca, uno dei principali protagonisti di quella strategia, ha ritenuto provato che l’attentato dinamitardo al comitato elettorale fosse finalizzato a depistare le indagini, nel senso di far ritenere che quello che stava avvenendo in Sicilia in quegli anni avesse a che fare con la politica e non con la mafia, mentre la causale del progetto di sopprimere il Mannino veniva individuata nella esigenza di punire un politico che nel corso della sua carriera aveva avversato pubblicamente Cosa nostra, dimenticando di possedere anch’egli un’oscura dimensione illecita, costituita dal clientelismo e dalle corruzioni riferibili al mondo dell’imprenditoria: dichiarazioni queste collimanti con l’altra del medesimo collaboratore, secondo cui il Mannino non aveva mai posto in essere specifiche, concrete e precise condotte di favore per Cosa nostra.
i) I rapporti con la “Stidda”. Secondo l’accusa (sostenuta sulla base delle dichiarazioni dei collaboranti Benvenuto Croce, Calafato, Salemi Pasquale e Giuseppe, Canino, Sciabica e Siino) il Mannino, per il tramite di Enzo Lattuca, avrebbe tenuto nei primi anni ’90 rapporti con esponenti di vertice della Stidda, organizzazione mafiosa capeggiata da Giuseppe Grassonelli e operante nell’agrigentino, ottenendo l’appoggio elettorale per sé e per suo fratello Pasquale nelle competizioni del 1991-1992 e favorendo, come contropartita, il sodalizio nell’aggiudicazione di appalti per opere pubbliche.
Il giudice di primo grado, premesso che la Stidda – formata da vari soggetti, anche fuoriusciti da Cosa nostra, e costituitasi nella Sicilia sud-orientale a seguito della strage di Porto Empedocle del 21/9/1986 dopo l’alleanza di Grassonelli con il clan gelese Paolello – era un’organizzazione di stampo mafioso autonoma e antagonista rispetto a Cosa nostra (a proposito della feroce guerra di mafia tra le due associazioni almeno fino a tutto il 1992 e a contestazione della tesi accusatoria per cui la Stidda, prima antagonista, si sarebbe poi omologata a Cosa nostra, sono state citate le relative sentenze di merito e di legittimità), ha escluso che eventuali condotte del Mannino in favore di Grassonelli, arrestato nel novembre del 1992, o di altri esponenti di quel sodalizio fossero sussumibili nell’imputazione contestata come concorso esterno nell’associazione mafiosa Cosa nostra. Si è anche ricordato che Siino, riferendo del colloquio avuto in carcere con Grassonelli nel 1994 circa l’attentato di Sciacca del dicembre 1990, ha affermato che lo stesso non era riconducibile al boss saccense Di Ganci, bensì allo stesso Grassonelli, che intendeva far credere all’imputato che la colpa fosse di Cosa nostra e così orientarlo contro questa organizzazione ed a favore della propria. D’altra parte, Siino, Benvenuto Croce e Salemi, pur ammettendo che si fosse realizzata una sorta di pace armata tra i due sodalizi nella fase di disarticolazione della Stidda per l’arresto nel 1993 di molti suoi componenti, ne hanno escluso ogni ipotesi di integrazione o fusione in Cosa nostra.
Si è aggiunto che, anche a voler ritenere provata la “disponibilità” o “vicinanza” dell’imputato al clan Grassonelli e in particolare alla persona di quest’ultimo sulla base delle propalazioni dei collaboranti e dell’esame dei tabulati del cellulare in uso allo stesso (da cui sarebbero partite numerose telefonate alla segreteria palermitana del politico quando questi era però fuori sede), sarebbe mancata la prova di effettive controprestazioni all’appoggio elettorale degli stiddari nei primi anni ’90, non essendo state evidenziate condotte concrete di aggiudicazione di appalti a persone o imprese legate al sodalizio o a Grassonelli. Anche in relazione ad alcuni, modesti favori a beneficio di singoli esponenti, le indicazioni dei collaboratori si erano rivelate confuse e non riscontrate, mentre, per l’episodio narrato da Benvenuto Croce del preteso avvicinamento del Mannino da parte di Grassonelli per l’aggiustamento del processo Livatino, si è puntualizzato che il Mannino avrebbe comunque dato una risposta negativa all’interlocutore.
l) Le dichiarazioni dei collaboratori Spatola, Sciabica e Messina. Secondo Spatola il Mannino, a quel tempo Ministro, si sarebbe attivato sfruttando le sue amicizie istituzionali (il procuratore della Repubblica di Sciacca, Messana, ed il generale Subranni, comandante del Ros) per l’archiviazione delle indagini scaturite dalle rivelazioni del collaboratore, il quale nel 1991 aveva accusato l’imputato di avere tenuto relazioni collusive con Cosa nostra. La sentenza di primo grado ha escluso la valenza indiziante di queste dichiarazioni sul rilievo che il P.M. non aveva neppure chiesto che Spatola, il quale aveva poi indirizzato al Mannino una lettera di scuse, fosse esaminato al dibattimento, mentre restava incensurabile l’interesse dell’imputato ad attivare i canali istituzionali per tutelare la propria immagine e far emergere la verità dei fatti.
Parimenti inattendibili, e in contrasto con le altre fonti probatorie anche interne ai vertici di Cosa nostra, sono state considerate le propalazioni indirette di Sciabica, associato alla Stidda, il quale avrebbe appreso da altri stiddari che le imprese Salamone e Vita sarebbero state imposte sul mercato degli appalti dai vertici corleonesi di Cosa nostra mediante un diretto coinvolgimento del Mannino, organicamente inserito nel sodalizio mafioso.
In riferimento alle dichiarazioni de relato di Messina, il quale aveva affermato di aver saputo da due elementi di spicco della mafia agrigentina, De Caro e Guarnieri, che il Mannino era un “mafioso”, “vicino alle posizioni” di Cosa nostra, esse, non essendo accompagnate da indicazioni volte a specificarne il contenuto in termini di condotte dirette ad agevolare il rafforzamento del sodalizio, non potevano esser valorizzate come prova del reato contestato.
m) I risultati elettorali. Anche per quanto riguardava i risultati elettorali conseguiti dal Mannino nel corso della sua lunga carriera politica, la sentenza di primo grado ha messo in rilievo come, nonostante i comprovati contatti con esponenti mafiosi agrigentini e palermitani, non vi era prova di alcuna controprestazione da parte dell’imputato all’appoggio eventualmente fornitogli dall’organizzazione mafiosa, che da sempre votava e faceva votare per il partito di maggioranza relativa, mentre non era affatto verificabile in termini concreti la misura dell’incidenza delle scelte della mafia sulle fortune elettorali dell’uomo politico. Avuto riguardo ai tabulati delle preferenze riportate nelle diverse circoscrizioni in cui dal 1967 al 1992 era stato candidato, risultava invalidata la tesi di matrice sociologica di una corrispondenza tra successo elettorale e appoggio mafioso, essendosi rilevato ad esempio che il Mannino conseguì un apprezzabile successo nelle elezioni del 1987 nonostante che, sulla scorta di varie dichiarazioni di collaboratori, proprio in quell’anno Cosa nostra avesse dato indicazione di votare per il partito socialista, per avere la componente democristiana tradito le aspettative della mafia.
Il Tribunale, attraverso la puntuale analisi delle risultanze processuali, perveniva pertanto alla conclusione che la prova della fondatezza dell’ipotesi accusatoria non era stata raggiunta. Non era emerso con sufficiente margine di certezza che l’imputato dall’esterno avesse realizzato condotte consapevoli di contributo materiale che, al di là dell’interesse personale di singoli personaggi mafiosi, fossero state di rilevanza causale in ordine al rafforzamento di Cosa nostra; né tanto meno poteva sostenersi che esse avessero il carattere della “infungibilità” o fossero state compiute in un momento di “fibrillazione” della vita del sodalizio criminoso. La mancata concretizzazione probatoria di tali condotte e l’autonomo movente elettorale-clientelare o di tipo corruttivo impedivano qualsiasi connessione logica e causale con i rapporti di “amicizia”, “vicinanza” e “disponibilità”, pure incontrovertibilmente instaurati e coltivati dal Mannino con taluni esponenti agrigentini e palermitani dell’organizzazione mafiosa.
2. — Disposta la riapertura dell’istruzione dibattimentale, mediante l’acquisizione delle sentenze irrevocabili riguardanti rispettivamente i procedimenti Rizzani De Eccher (di assoluzione del Mannino per il reato di corruzione e di estinzione per amnistia del reato di finanziamento illecito dei partiti), Vita (di assoluzione dell’imputato dal reato di partecipazione mafiosa) e Aragona, e l’audizione degli imputati di reato connesso Brusca, Giuffré e Aragona, la Corte di appello di Palermo, con sentenza dell’11/5-5/11/2004, all’esito di una rinnovata disamina dei fatti, giustificata dall’asserita “destoricizzazione e destrutturazione” del compendio probatorio effettuata dal primo giudice, ribaltava la pronunzia assolutoria e dichiarava Mannino colpevole dell’unico reato permanente di cui agli artt. 110 e 416 bis cod. pen. protrattosi fino al marzo 1994, in esso assorbite le condotte contestate per il periodo antecedente al 28/9/1982, e, negate le attenuanti generiche, lo condannava alla pena di anni 5 e mesi 4 di reclusione.
Esclusa l’inammissibilità dell’appello del P.M. per difetto di specificità delle censure, la Corte palermitana enunciava in premessa i parametri giurisprudenziali presi in considerazione per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, sostenendo di condividere i principi affermati dalle Sezioni Unite nelle sentenze Demitry e Carnevale, e, movendo dal rilievo critico del metodo atomistico seguito dal primo giudice, poiché difettava la valutazione sintetica complessiva degli elementi indiziari mentre taluni episodi sarebbero rimasti “inesplorati”, ne inferiva la necessità della integrale rilettura delle prove per verificarne l’effettiva portata.
Erano così ricostruiti la carriera e il ruolo politico di Mannino, quale esponente della Democrazia Cristiana e uomo di Governo, regionale e nazionale, ed erano rivisitate le vicende già oggetto di disamina da parte del giudice di primo grado, la cui interpretazione veniva integralmente rovesciata in chiave accusatoria.
In particolare, erano ritenute utilizzabili, per trarne elementi per la formazione del convincimento giudiziale, le sentenze di primo grado nelle quali risultava accertata la mafiosità di taluni soggetti che avevano avuto consistenti rapporti con Mannino (Ferraro e Inzerillo). Era anche utilizzata la sentenza non irrevocabile del Tribunale di Palermo 2/7/2002 di condanna di Salamone per il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., nella quale era descritto il sistema dei rapporti tra politici, imprenditori e mafia nella gestione degli appalti pubblici, ripercorrendosi (anche alla luce delle propalazioni di Giuffrè che aveva riferito quanto sentito in proposito da Bernardo Provenzano) il passaggio dal vecchio metodo “parassitario e vessatorio” alla ristrutturazione verticistica di Cosa nostra con il coinvolgimento “simbiotico” del livello politico, individuato nelle persone di Mannino, Lima, Nicolosi e Sciangula, la cui contropartita era costituita dai voti procurati dalla mafia mediante il controllo del territorio e dalle tangenti versate dagli imprenditori.
Dopo avere preso in considerazione ciascun elemento indiziante, la Corte passava alla valutazione complessiva degli stessi, avvalendosi anche dell’analisi storico-sociologica del fenomeno della “contiguità compiacente”, col risultato di trasformare la valenza del singolo fatto, in sé spiegabile come episodio di malcostume e frutto di attività politico-clientelare o corruttiva, come sintomatico di un fascio di relazioni di scambio dipendente da un accordo “occulto”, comportante l’adesione del Mannino alle finalità dell’associazione mafiosa secondo lo schema del concorso esterno. Ed il patto, così ricostruito probatoriamente, era ritenuto penalmente rilevante ai sensi degli artt. 110 e 416 bis cod. pen., ravvisandosi l’idoneità causale della disponibilità manifestata dal politico rispetto al fine di consolidamento del livello di efficienza del sodalizio criminoso.
Elencate quindi le condotte di adempimento della promessa fatta dal Mannino in occasione del patto elettorale (l’assunzione di Mortillaro; il finanziamento per la cantina di Bono; i contatti con Siino per il tramite di Vita; la costante attenzione per gli appalti a favore delle imprese Salamone e Vita nella vicenda Sitas e nella realizzazione di altre opere pubbliche; l’attribuzione di posti di sottogoverno a Ferraro e ad esponenti del gruppo palermitano; l’appoggio elettorale a Inzerillo; gli stretti rapporti con Pennino, organico a Cosa nostra; i contatti con il clan Grassonelli) e individuata nella stagione delle stragi la crisi del patto, la conclusione era che il Mannino aveva favorito Cosa nostra, senza soluzione di continuità, fin dall’accordo del 1981, susseguendosi da allora una serie di eventi indicativi della sua persistente efficacia nel tempo.
3. — La difesa del Mannino ha proposto ricorso per cassazione chiedendo l’annullamento senza rinvio della sentenza di appello e formulando a sostegno della richiesta una serie consistente di motivi.
In rito, è stata riproposta la questione della inammissibilità, per difetto di specificità dei motivi, dell’appello del P.M. ed eccepita l’illegittimità costituzionale dell’art. 570 cod. proc. pen. per contrasto con le garanzie del diritto di difesa e del contraddittorio nella formazione della prova, garanzie assicurate dagli artt. 24 comma 2 e 111 Cost., nella parte in cui non prevede che il pubblico ministero non possa proporre appello avverso la sentenza assolutoria di primo grado, lamentando altresì, in collegamento con la censura di incostituzionalità, il difetto di motivazione con riferimento all’omessa valutazione di prove decisive indicate nelle memorie depositate per contrastare il gravame del P.M..
E’ stata anche dedotta la nullità della sentenza per violazione degli artt. 111 Cost., 190, 234, 238 bis e 526, in relazione all’art. 178 lett. c) cod. proc. pen., essendo state prese in esame, senza essere state ritualmente acquisite, e utilizzate nel merito della ricostruzione e valutazione probatoria dei fatti, le sentenze non ancora irrevocabili di condanna per il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., 2/7/2002 del Tribunale di Palermo a carico di Salamone, 20/11/2000 del Tribunale di Palermo a carico di Inzerillo (seguita tuttavia dalla pronunzia assolutoria di secondo grado 3/12/2004) e 10/7/2003 del Tribunale di Caltanissetta nei confronti di Ferraro.
La difesa ha censurato inoltre: l’erronea applicazione della legge penale con riferimento ai presupposti della condotta qualificata come concorso esterno in associazione mafiosa, in punto di efficacia causale del contributo e di dolo del concorrente; l’erroneità del metodo di valutazione globale della prova dichiarativa, pure in assenza dei requisiti di certezza e precisione dei singoli elementi indiziari e di obiettivi riscontri individualizzanti per le propalazioni dirette e de relato dei collaboratori; la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione desumibile dalla mancanza di linearità e dalla disordinata trattazione dei temi in discussione.
L’illogicità e l’interna contraddittorietà della motivazione è stata denunziata anche in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, negate nonostante la scelta di determinare la pena nel minimo edittale.
In subordine, si è dedotto che, in violazione della disciplina della successione delle leggi nel tempo, l’art. 416 bis cod. pen. sarebbe stato erroneamente applicato anche ai fatti anteriori all’entrata in vigore della norma incriminatrice (art. 1 l. 13/9/1982, n. 646), sulla base di una indebita equiparazione della fattispecie di concorso esterno al reato di partecipazione associativa, solo quest’ultimo essendo di natura permanente. Lo scambio elettorale politico-mafioso risalente al 1981 sarebbe ricompreso, d’altra parte, nella previsione dell’ultimo inciso del terzo comma dell’art. 416 bis cod. pen., introdotto, insieme con l’art. 416 ter, solo ad opera del d.l. n. 306/1992 conv. in l. n. 356/1992: donde la non punibilità della condotta precedente l’entrata in vigore della norma incriminatrice.
Con un’articolata memoria, dal contenuto essenzialmente riepilogativo dei motivi di ricorso, la difesa ha infine sollecitato una pronuncia delle Sezioni Unite che definisse i contorni della fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa nel caso del politico che stringe un accordo elettorale con la mafia, e ha diffusamente argomentato le ragioni della richiesta di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, sull’assunto che le situazioni di fatto e l’intero materiale probatorio ad esse pertinente fossero già stati scandagliati e valorizzati al limite massimo, sì da potersi escludere radicalmente la responsabilità dell’imputato “oltre il ragionevole dubbio”.
A seguito di tale motivata richiesta il Primo Presidente, rilevato che tra le varie questioni prospettate nel ricorso figuravano anche quelle, controverse e di speciale importanza, aventi ad oggetto da un lato i requisiti per la configurabilità del concorso esterno del politico nell’associazione mafiosa (nel caso paradigmatico del patto di scambio tra l’appoggio elettorale da parte dell’associazione e l’appoggio promesso a questa da parte del candidato) e dall’altro i limiti di utilizzabilità probatoria delle sentenze pronunciate in procedimenti diversi e non ancora divenute irrevocabili, con decreto 30/3/2005 ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite fissando per la discussione l’odierna udienza pubblica.
Considerato in diritto
1. — Il ricorrente ha riproposto innanzitutto la questione di inammissibilità (o solo parziale ammissibilità nei limiti del devolutum) dell’appello del pubblico ministero, per difetto di specificità dei motivi, sul rilievo che il P.M. aveva genericamente censurato “tutti i capitoli della sentenza impugnata” per l’asserita atomizzazione e frammentazione del materiale probatorio, sostenendo la critica con riferimento solo a taluni episodi esemplificativamente citati per argomentare la sussistenza degli estremi del reato contestato: il che avrebbe prodotto l’effetto di circoscrivere la materia devoluta alla cognizione del giudice dell’appello, con la contestuale implicita rinuncia alla verifica della valenza probatoria di tutti gli elementi di fatto non espressamente citati, da reputarsi ormai coperti da giudicato.
E siffatto onere di specificazione dei punti della sentenza da devolvere al giudice di appello, insieme con i motivi di dissenso, non poteva ritenersi assolto dal pubblico ministero attraverso il rinvio per relationem ad un atto (la memoria riepilogativa depositata nel giudizio di primo grado) antecedente alla pronuncia della sentenza, non essendo consentita la mera riproposizione di argomenti vanamente prospettati al primo giudice.
Il motivo di impugnazione è privo di pregio poiché, come ha esattamente rilevato la Corte palermitana, risulta devoluto dall’appello del P.M. al giudice di secondo grado il punto cruciale della sussistenza o meno del contestato reato di concorso esterno in associazione mafiosa, mediante specifiche e articolate critiche al metodo di valutazione del compendio probatorio del primo giudice, a prescindere dalle singole argomentazioni logiche portate a sostegno della tesi accusatoria e del petitum oggetto del gravame (Sez. Un., 27/9/1995, Timpanaro, Cass. pen. 1996, 1398) e nonostante l’improprio richiamo dell’appellante ad una memoria redatta in prime cure, funzionale alla rilettura dei singoli episodi probatoriamente valorizzati come sintomatici della contiguità mafiosa dell’imputato.
D’altra parte è pacifico in dottrina e in giurisprudenza che l’appello del pubblico ministero contro la sentenza assolutoria emessa dal giudice del dibattimento, salva l’esigenza di contenere la pronuncia nei limiti dell’originaria contestazione, ha effetto “pienamente devolutivo”, attribuendo tradizionalmente al giudice ad quem gli ampi poteri decisori elencati negli artt. 515 comma 2 cod. proc. pen. 1930 e 597 comma 2 lett. b) del vigente codice di rito (Sez. Un., 31/3/2004, Donelli, Cass. pen. 2004, 2746). Ciò comporta, da un lato, che il giudice dell’appello è legittimato a verificare tutte le risultanze processuali e a riconsiderare anche i punti della motivazione della sentenza di primo grado che non abbiano formato oggetto di specifica critica, non essendo vincolato alle alternative decisorie prospettate con i motivi di appello, e dall’altro che l’imputato è rimesso nella fase iniziale del giudizio e può riproporre, anche se respinte, tutte le istanze difensive che concernono la ricostruzione probatoria del fatto e la sussistenza delle condizioni che configurano gli estremi del reato, in riferimento alle quali il giudice dell’appello non può sottrarsi all’onere di esprimere le sue determinazioni.
2. — Il ricorrente ha eccepito altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 570 (rectius: 593 comma 1) cod. proc. pen., per contrasto con le garanzie del diritto di difesa e del contraddittorio nella formazione della prova assicurate dagli artt. 24 comma 2 e 111 Cost., nella parte in cui non prevede che il pubblico ministero non possa proporre appello avverso la sentenza assolutoria di primo grado. Si sostiene che l’appello del pubblico ministero sia privo di rango costituzionale e contrasti con i diritti difensivi quando viene esercitato contro una sentenza di assoluzione poiché il gravame, che nello stesso caso è precluso all’imputato, determina il devolutum impedendo il rilievo di eventuali nullità o profili di incompetenza sollevati e respinti dal primo giudice e l’escussione di prove a discarico non ammesse in prime cure né riproposte in appello. Quanto al denunziato sacrificio del contraddittorio nella formazione della prova, nel giudizio di appello promosso dall’esclusivo gravame del P.M. l’imputato subisce il controllo che la Corte effettua sugli atti probatori già acquisiti, senza possibilità di partecipare alla formazione della conoscenza di quel giudice, col rischio della reformatio in pejus conseguente al mero esercizio del diritto potestativo del pubblico ministero appellante.
Ritiene il Collegio che i prospettati dubbi di costituzionalità siano manifestamente infondati.
Si è già detto che, in virtù del carattere ampiamente devolutivo del giudizio di appello instaurato a seguito di impugnazione del P.M. contro la pronunzia assolutoria, l’imputato ha il diritto di riproporre ogni questione sostanziale e processuale già posta e disattesa in primo grado.
Va inoltre sottolineato che, nella prospettiva ermeneutica disegnata dalle Sezioni Unite con la sentenza 30/10/2003, Andreotti (Cass. pen. 2004, 811) in coerenza con le disposizioni di diritto internazionale pattizio di cui all’art. 14.5 Patto intern. dir. civ. e pol. ed all’art. 2.2 Protocollo n. 7 Conv. eur. dir. uomo, la garanzia apprestata dall’ordinamento processuale interno, per la verifica di legittimità della condanna dell’imputato intervenuta in appello dopo l’assoluzione in primo grado, riveste carattere “sostanziale” in termini di effettività del sindacato di legittimità ex art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen., a fronte della mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione della sentenza di condanna derivante dall’omessa valutazione di prove decisive per il proscioglimento dell’imputato da parte del giudice di appello e, ancor prima, del giudice di primo grado che pure lo aveva assolto. Ai fini della rilevabilità del vizio di prova omessa decisiva, la Corte di cassazione può e deve fare riferimento, pertanto, non solo alla sentenza assolutoria di primo grado, ma anche alle memorie ed agli atti con i quali la difesa, nel contestare il gravame del pubblico ministero, abbia prospettato al giudice di appello l’avvenuta acquisizione dibattimentale di altre e diverse prove, favorevoli e nel contempo decisive, pretermesse dal giudice di primo grado nell’economia di quel giudizio, oltre quelle apprezzate ed utilizzate per fondare la decisione assolutoria. Con il lineare corollario che la mancata risposta del giudice di appello alle argomentazioni svolte dalla difesa nel contraddittorio dibattimentale circa la portata di decisive risultanze probatorie, conducente all’illegittimo esercizio del potere demolitorio della sentenza di assoluzione di primo grado ad opera di un giudice che ha valutato solo il carteggio processuale, inficia la tenuta “informativa” e “logico-argomentativa” della sentenza di condanna e, a causa della negativa verifica di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, la rende suscettibile di annullamento.
Né va sottaciuto il principio più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo il quale il giudice di appello che riformi totalmente la sentenza di primo grado, sostituendo all’assoluzione l’affermazione di colpevolezza dell’imputato, ha l’obbligo di dimostrarne con rigorosa analisi critica l’incompletezza o l’incoerenza, non essendo altrimenti razionalmente giustificato il rovesciamento della statuizione assolutoria in quella di condanna.
Di talché, ferma restando la discrezionalità delle scelte legislative quanto alla riperimetrazione delle opzioni decisorie consentite al giudice di appello, ritiene il Collegio, alla stregua della formulata soluzione interpretativa, che le fondamentali garanzie di cui agli artt. 24 comma 2 e 111 Cost. attinenti al pieno esercizio delle facoltà difensive, anche per i profili della formazione della prova nel contraddittorio fra le parti e dell’obbligo di valutazione della stessa nel rispetto dei canoni di legalità e razionalità, siano riconosciute ed assicurate nel giudizio di appello instaurato a seguito dell’impugnazione del pubblico ministero contro la sentenza assolutoria di primo grado.
3. — Chiamata a pronunziarsi sull’appello del pubblico ministero, che aveva censurato la prima decisione per non avere osservato i principi giurisprudenziali in tema di requisiti della fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, per essersi disancorata dai dati certi costituiti dalle plurime e convergenti dichiarazioni, dirette o de relato, dei collaboratori e per avere valutato frammentariamente la portata dei numerosi indizi raccolti a carico dell’imputato, la Corte di appello di Palermo, criticata la “destoricizzazione e destrutturazione” del compendio probatorio effettuate dal primo giudice, all’esito di una rinnovata disamina dei fatti ha dichiarato il Mannino colpevole del reato di cui agli artt. 110 e 416 bis cod. pen..
Premesso che costituisce un compito davvero arduo procedere a una ordinata esposizione del ragionamento probatorio della sentenza di secondo grado per la palese farraginosità dei passaggi argomentativi (taluni temi vengono prima trattati, poi abbandonati per essere infine ripresi in contesti diversi e lontani) e per la complessiva disorganicità, anche grafica, della motivazione sia in fatto che in diritto, se ne segnalano in estrema sintesi i contenuti, contrapposti al ragionamento del giudice di primo grado.
La Corte palermitana, sembrando prestare formale adesione ai parametri giurisprudenziali fissati per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa dalle sentenze delle Sezioni Unite 5/10/1994, Demitry e 30/10/2002, Carnevale, ne ha così illustrato gli elementi costitutivi: – il dolo del concorrente è quello generico, dato dalla consapevolezza e volontà dell’efficienza causale del proprio contributo rispetto al conseguimento degli scopi dell’associazione, anche soltanto nella forma dell’accettazione del rischio, non quello specifico che caratterizza la posizione del partecipe; – la prova da acquisire è quella di ogni singolo contributo apportato dall’agente e della sua portata agevolativa rispetto agli scopi dell’associazione, non essendo sufficiente la mera “disponibilità”; – il patto stretto tra esponenti di una cosca e il politico che si impegni a fornire utilità di tipo economico-imprenditoriale in cambio di sostegno elettorale appare di per sé idoneo ad integrare la responsabilità per concorso esterno quando la promessa, per la caratura e l’affidabilità del promittente, sia in grado di determinare un immediato salto di qualità nel livello di efficienza dell’organizzazione criminale, mentre il successivo adempimento degli impegni assunti costituisce condotta susseguente al reato valutabile sotto il profilo probatorio, e parimenti indifferente è l’esito delle consultazioni elettorali; il reato di cui all’art. 416 ter cod. pen., che punisce la promessa di voti in cambio di somme di denaro, è un reato di pericolo astratto che resta integrato senza che occorra la prova che il contributo del politico abbia avuto efficacia causale per il rafforzamento del sodalizio mafioso.
Quindi, movendo dal rilievo critico del metodo seguito dal primo giudice, che aveva assolto l’imputato per carenza dell’elemento soggettivo circa la consapevolezza della mafiosità di taluni soggetti con i quali aveva avuto significativi rapporti o per insufficienza probatoria della rilevanza causale di talune condotte ai fini del rafforzamento dell’associazione, considerate solo come espressione di una politica clientelare e corruttiva, il giudice di appello ha proceduto all’integrale rilettura degli indizi per verificarne l’effettiva portata con una valutazione sintetica e aggregata. E, all’esito di tale operazione, condotta anche mediante il ricorso all’analisi storico-sociologica del fenomeno criminale “per orientarsi nella zona grigia della contiguità compiacente”, ha ritenuto che ogni singolo episodio, in sé spiegabile come frutto di malcostume o di attività politico-clientelare, fosse in realtà sintomatico di un fascio di relazioni di scambio dipendenti da un accordo “occulto”, comportante l’adesione del Mannino alle finalità dell’associazione mafiosa secondo lo schema del concorso esterno. In particolare, si è affermato che: tra le strategie di rafforzamento della mafia vi è quella di trarre profitto dalle relazioni intessute con esponenti del potere politico-amministrativo per il conseguimento di finanziamenti e appalti, potendo la consorteria a sua volta contare su un vasto potenziale elettorale; negli anni ’80 il Mannino aveva bisogno di voti per la sua ascesa politica e ne chiese, in occasione delle consultazioni regionali e nazionali, ad esponenti mafiosi di spicco agrigentini e palermitani; dei “favori” fatti dal Mannino hanno parlato taluni collaboratori di giustizia, riferendosi alla “vicinanza” e “disponibilità” del politico, assistita dalla consapevolezza e volontà di interagire con l’associazione mafiosa; in questa prospettiva andava interpretato il patto stretto nel 1980-1981 tra il Mannino e Pennino, col quale il primo manifestò la sua “disponibilità” in cambio dell’appoggio elettorale nell’area palermitana, anche se non erano predeterminate nel dettaglio le controprestazioni in termini di “favori” all’associazione mafiosa, subordinati alla positività dei risultati elettorali che arrivarono con notevole incremento nel 1983. Mannino favorì dunque Cosa nostra senza soluzione di continuità, fin dall’accordo del 1981, susseguendosi da allora una serie di episodi indicativi della sua persistente efficacia nel tempo, cronologicamente elencati e qualificati come condotte di adempimento della promessa.
Così ricostruito, il patto elettorale politico-mafioso è stato ritenuto rilevante ai sensi degli artt. 110 e 416 bis cod. pen., essendosi ravvisata l’immediata idoneità causale della “disponibilità” manifestata dal politico (la cui affidabilità era desumibile dai rapporti da tempo instaurati con i capi della famiglia agrigentina e dalla gravità delle reazioni cui sarebbe andato incontro se non avesse tenuto fede agli impegni) e, con essa, dell’acquisizione di un rapporto privilegiato con un referente istituzionale (“sicuro punto di riferimento” e “interfaccia politica” dell’associazione), rispetto al fine di consolidamento e rafforzamento del livello di efficienza del sodalizio criminoso, che dal patto trasse linfa vitale quantomeno in alcuni settori di influenza.
Rispetto a siffatto apparato argomentativo la difesa del ricorrente, dopo averne preliminarmente sottolineato l’adesione acritica alle tesi del pubblico ministero, la sistematica pretermissione delle proposizioni difensive, il “disordine”, la “frammentarietà” e la “prolissità” nella superficiale analisi dei fatti, ha denunziato, con due motivi di impugnazione, il cui assunto appare sostanzialmente unitario, da un lato, l’erronea applicazione della legge penale con riferimento ai requisiti della condotta qualificata come concorso esterno in associazione mafiosa e, dall’altro, l’inosservanza dei criteri di valutazione della prova dichiarativa, nonché la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione. E’ stato anche rilevato che, a differenza della chiara ricostruzione delle vicende effettuata dai giudici di primo grado all’esito di una complessa e laboriosa istruttoria dibattimentale, la sentenza impugnata risultava inficiata dalla disordinata trattazione dei temi e dalla mancanza di linearità dell’iter logico e argomentativo, che rendeva incomprensibili e insuscettibili di controllo il ragionamento probatorio e le modalità di formazione del convincimento del giudice.
In particolare, a fronte dell’ineccepibile metodo di interpretazione del primo giudice, coerente ante litteram con i principi poi fissati da Sez. Un., 30/10/2002, Carnevale in tema di efficacia causale del contributo e di dolo del concorrente, la Corte di appello, con una confusa e ridondante disamina del patto elettorale politico-mafioso, si sarebbe discostata da essi e, nell’esprimere un giudizio di disvalore essenzialmente etico-sociale, avrebbe attribuito alla “disponibilità” mostrata dal politico nell’incontro con Pennino e Vella, di per sé, rilevanza causale nel determinare l’immediato salto di qualità del livello di efficienza del sodalizio criminoso, per la particolare caratura, serietà e affidabilità del politico, senza verificare l’oggettivo e concreto contributo effettivamente dato al consolidamento o al rafforzamento del medesimo sodalizio o di un suo particolare settore. Nella sentenza impugnata si sarebbe altresì affermata la sufficienza del dolo generico o addirittura eventuale del concorrente, indipendentemente dalla consapevolezza e volontà di perseguire il programma criminale dell’associazione mafiosa, nonché sostenuto che dalle aspettative di “impunità” e “favori” create dalla promessa del politico il sodalizio avrebbe tratto “sostegno morale”, concorrendo la “carica psicologica” e il “prestigio” acquisito al rafforzamento della struttura associativa, sebbene nel capo di imputazione si facesse esclusivo riferimento a condotte di natura materiale e il concorso morale non avesse mai trovato ingresso nel processo.
Quanto alle indicazioni di metodo nella valutazione della prova dichiarativa, il ricorrente ha dedotto che, mentre la sentenza di primo grado aveva analizzato singolarmente gli elementi indiziari indicati a sostegno dei temi di accusa, applicando a ciascuna delle dichiarazioni, dirette o indirette, dei collaboratori di giustizia le regole stabilite dagli artt. 192 e 195 cod. proc. pen. sulla attendibilità intrinseca ed estrinseca e sul carattere individualizzante dei riscontri, il giudice di appello, accedendo alla critica del P.M. di “frammentazione”, “atomizzazione” e “destoricizzazione” delle prove e pervenendo all’indebito capovolgimento della decisione assolutoria, aveva invece assemblato l’intero compendio probatorio secondo una lettura totalizzante e d’assieme, corroborata anche da parametri socio-culturali in tema di “contiguità compiacente”, pure in assenza di obiettivi riscontri individualizzanti, soprattutto per le propalazioni de relato dei collaboratori, e della verifica analitica di certezza, conferenza, gravità e precisione di ciascuno degli indizi, che deve metodologicamente precedere la sintesi finale degli stessi in una prospettiva dimostrativa globale.
Il mancato rispetto dei criteri legali di valutazione della prova in riferimento alle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia era censurabile anche perché le stesse non avevano superato il vaglio di attendibilità all’esito del contraddittorio in prime cure, sì che la diversa valutazione in senso favorevole all’accusa imponeva un onere motivazionale particolarmente rigoroso nell’indicazione delle ragioni del contrario avviso, onere in realtà non assolto; con riferimento ai collaboranti Brusca e Siino, l’omissione appariva ancora più grave, posto che le dichiarazioni dei due sulla collocazione temporale del c.d. accordo del tavolino – 1988 o 1991 – o sulla genesi mafiosa degli attentati di Sciacca e sull’incontro col boss Di Ganci erano risultate in contrasto a seguito della riapertura dell’istruzione dibattimentale. Si sarebbe inoltre fatto largo uso del criterio secondo cui Mannino “non poteva non conoscere” la mafiosità di alcuni soggetti con i quali era entrato in contatto (Ignazio e Nino Salvo, Settecasi, Caruana, Mortillaro, Inzerillo, Ferraro ecc.), senza però tenere conto di insuperabili elementi storici e logici di segno contrario a tale apodittica presunzione, ovvero utilizzando passaggi argomentativi o valutativi di sentenze non irrevocabili e neppure acquisite ritualmente al dibattimento.
4. — Le Sezioni Unite ritengono innanzi tutto di confermare il principio giurisprudenziale (Sez. Un., 5/10/1994, Demitry, Foro it. 1995, II, 422; Sez. Un., 27/9/1995, Mannino, Cass. pen. 1996, 1087; Sez. Un., 30/10/2002, Carnevale, Foro it. 2003, II, 453), secondo cui anche per il delitto di associazione di tipo mafioso di cui all’art. 416 bis cod. pen. è configurabile il concorso esterno.
Nel tracciare il criterio discretivo tra le rispettive categorie concettuali della partecipazione interna e del concorso esterno, si definisce “partecipe” colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, non solo “è” ma “fa parte” della (meglio ancora: “prende parte” alla) stessa: locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima.
Di talché, sul piano della dimensione probatoria della partecipazione rilevano tutti gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio. Deve dunque trattarsi di indizi gravi e precisi (tra i quali le prassi giurisprudenziali hanno individuato, ad esempio, i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di “osservazione” e “prova”, l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo d’onore”, la commissione di delitti-scopo, oltre a molteplici, variegati e però significativi “facta concludentia”) dai quali sia lecito dedurre, senza alcun automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo nonché della duratura, e sempre utilizzabile, “messa a disposizione” della persona per ogni attività del sodalizio criminoso, con puntuale riferimento, peraltro, allo specifico periodo temporale considerato dall’imputazione.
Assume invece la veste di concorrente “esterno” il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa e privo dell’affectio societatis (che quindi non ne “fa parte”), fornisce tuttavia un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento delle capacità operative dell’associazione (o, per quelle operanti su larga scala come “Cosa nostra”, di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale) e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima.
Può dunque dirsi ormai incontroversa in giurisprudenza e pressoché unanimemente asseverata dalla dottrina (ma anche il più recente progetto di riforma del codice penale elaborato nel 2005 dalla Commissione Nordio estende espressamente, all’art. 47, le disposizioni sul concorso eventuale ai reati associativi, intendendosi per tali i “reati di associazione criminale” o a concorso comunque necessario) l’astratta configurabilità della fattispecie di concorso “eventuale” di persone, rispetto a soggetti diversi dai concorrenti necessari in senso stretto, in un reato necessariamente plurisoggettivo proprio, quale è quello di natura associativa. Ed invero, anche in tal caso la funzione incriminatrice dell’art. 110 cod. pen. (mediante la combinazione della clausola generale in essa contenuta con le disposizioni di parte speciale che prevedono le ipotesi-base di reato) consente di dare rilevanza e di estendere l’area della tipicità e della punibilità alle condotte, altrimenti atipiche, di soggetti “esterni” che rivestano le caratteristiche suindicate.
Ma siffatta opzione ermeneutica, favorevole in linea di principio alla configurabilità dell’autonoma fattispecie di concorso “eventuale “ o “esterno” nei reati associativi, postula ovviamente che sussistano tutti i requisiti strutturali che caratterizzano il nucleo centrale significativo del concorso di persone nel reato. E cioè:
– da un lato, che siano realizzati, nella forma consumata o tentata, tutti gli elementi del fatto tipico di reato descritto dalla norma incriminatrice di parte speciale e che la condotta di concorso sia oggettivamente e soggettivamente collegata con quegli elementi (arg. ex art. 115 cod. pen., circa la non punibilità del mero tentativo di concorso, nelle forme dell’accordo per commettere un reato e dell’istigazione accolta a commettere un reato, non seguite però dalla commissione dello stesso);
– dall’altro, che il contributo atipico del concorrente esterno, di natura materiale o morale, diverso ma operante in sinergia con quello dei partecipi interni, abbia avuto una reale efficienza causale, sia stato condizione “necessaria” – secondo un modello unitario e indifferenziato, ispirato allo schema della condicio sine qua non proprio delle fattispecie a forma libera e causalmente orientate – per la concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo e per la produzione dell’evento lesivo del bene giuridico protetto, che nella specie è costituito dall’integrità dell’ordine pubblico, violata dall’esistenza e dall’operatività del sodalizio e dal diffuso pericolo di attuazione dei delitti-scopo del programma criminoso. La particolare struttura della fattispecie concorsuale comporta infine, quale essenziale requisito, che il dolo del concorrente esterno investa, nei momenti della rappresentazione e della volizione, sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica sia il contributo causale recato dal proprio comportamento alla realizzazione del fatto concreto, con la consapevolezza e la volontà di interagire, sinergicamente, con le condotte altrui nella produzione dell’evento lesivo del “medesimo reato”. E, sotto questo profilo, nei delitti associativi si esige che il concorrente esterno, pur sprovvisto dell’affectio societatis e cioè della volontà di far parte dell’associazione, sia altresì consapevole dei metodi e dei fini della stessa (a prescindere dalla condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza per siffatti metodi e fini, che lo muovono nel foro interno) e si renda compiutamente conto dell’efficacia causale della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell’associazione: egli “sa” e “vuole” che il suo contributo sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio.
In merito allo statuto della causalità, sono ben note le difficoltà di accertamento (mediante la cruciale operazione controfattuale di eliminazione mentale della condotta materiale atipica del concorrente esterno, integrata dal criterio di sussunzione sotto leggi di copertura o generalizzazioni e massime di esperienza dotate di affidabile plausibilità empirica) dell’effettivo nesso condizionalistico tra la condotta stessa e la realizzazione del fatto di reato, come storicamente verificatosi, hic et nunc, con tutte le sue caratteristiche essenziali, soprattutto laddove questo rivesta dimensione plurisoggettiva e natura associativa. E però, trattandosi in ogni caso di accertamento di natura causale che svolge una funzione selettiva delle condotte penalmente rilevanti e per ciò delimitativa dell’area dell’illecito, ritiene il Collegio che non sia affatto sufficiente che il contributo atipico – con prognosi di mera pericolosità ex ante – sia considerato idoneo ad aumentare la probabilità o il rischio di realizzazione del fatto di reato, qualora poi, con giudizio ex post, si riveli per contro ininfluente o addirittura controproducente per la verificazione dell’evento lesivo. L’opposta tesi, che pretende di prescindere dal paradigma eziologico, tende ad anticipare arbitrariamente la soglia di punibilità in contrasto con il principio di tipicità e con l’affermata inammissibilità del mero tentativo di concorso.
D’altra parte, ferma restando l’astratta configurabilità dell’autonoma categoria del concorso eventuale “morale” in associazione mafiosa, neppure sembra consentito accedere ad un’impostazione di tipo meramente “soggettivistico” che, operando una sorta di conversione concettuale (e talora di sovvertimento dell’imputazione fattuale contestata), autorizzi il surrettizio e indiretto impiego della causalità psichica c.d. da “rafforzamento” dell’organizzazione criminale, per dissimulare in realtà l’assenza di prova dell’effettiva incidenza causale del contributo materiale per la realizzazione del reato: nel senso che la condotta atipica, se obiettivamente significativa, determinerebbe comunque nei membri dell’associazione criminosa la fiduciosa consapevolezza di poter contare sul sicuro apporto del concorrente esterno, e quindi un reale effetto vantaggioso per la struttura organizzativa della stessa.
Occorre ribadire che pretese difficoltà di ricostruzione probatoria del fatto e degli elementi oggettivi che lo compongono non possono mai legittimare – come queste Sezioni Unite hanno già in altra occasione affermato (sent. 10 luglio 2002, Franzese, Foro it., 2002, II, 601) – un’attenuazione del rigore nell’accertamento del nesso di causalità e una nozione “debole” della stessa che, collocandosi sul terreno della teoria dell’ “aumento del rischio”, finirebbe per comportare un’abnorme espansione della responsabilità penale. Ed invero, poiché la condizione “necessaria” si configura come requisito oggettivo della fattispecie criminosa, non possono non valere per essa l’identico rigore dimostrativo e il conseguente standard probatorio dell’ “oltre il ragionevole dubbio” che il giudizio penale riserva a tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato.
Si è peraltro sottolineato da parte delle Sezioni Unite, nella citata sentenza Franzese, che, attesa la natura preminentemente induttiva dell’accertamento e del ragionamento inferenziale nel giudizio penale, “il giudice, pur dovendo accertare ex post, inferendo dalle suddette generalizzazioni causali e sulla base dell’intera evidenza probatoria disponibile, che la condotta dell’agente è condizione necessaria del singolo evento lesivo, è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di certezza processuale, conducenti conclusivamente, all’esito del ragionamento probatorio di tipo largamente induttivo [ispirato ai criteri valutativi delineati nell’art. 192 commi 1 e 2 e, quanto alla doverosa ponderazione delle ipotesi antagoniste, nell’art. 546 comma 1 lett. e cod. proc. pen.], ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da alto grado di credibilità razionale o conferma dell’ipotesi formulata sullo specifico fatto da provare: giudizio [nella specie, quello in ordine alla reale efficacia condizionante della condotta atipica del concorrente esterno] enunciato anche in termini di elevata probabilità logica o probabilità prossima alla – confinante con la – certezza ”.
Che il criterio di imputazione causale dell’evento cagionato dalla condotta concorsuale costituisca il presupposto indispensabile di tipicità della disciplina del concorso di persone nel reato e la fonte ascrittiva della responsabilità del singolo concorrente, secondo il classico modello condizionalistico della spiegazione causale dell’evento, è infine ribadito tanto dal progetto 2001 della Commissione Grosso quanto da quello 2005 della Commissione Nordio di riforma della parte generale del codice penale. Nella relazione al primo, in tema di concorso di persone nel reato, si segnala la specificazione aggiunta all’art. 43 comma 1 – “causalmente rilevanti per la sua esecuzione” – per sottolineare “l’elemento fondamentale della efficacia causale rispetto alla realizzazione del reato che ogni condotta atipica deve in ogni caso possedere”, sì da “assicurare l’esigenza di provare la realizzazione di un apporto causale significativo”. Parimenti, nella relazione al secondo si avverte, nel definire le forme di partecipazione consistenti in specifici “atti di agevolazione”, che anche per essi “l’art. 43 comma 5 rapporta il contributo agevolatore alla sua efficacia causale”, in modo da rendere “l’accertamento del contributo nettamente più concreto perché impone al giudice di verificare se realmente il singolo concorrente abbia materialmente portato al fatto un quid pluris (contributo individualizzante) che abbia effettivamente influenzato il fatto storico”.
5. — Calogero Mannino è imputato del delitto di concorso eventuale in associazione mafiosa, “per avere – avvalendosi del potere personale e delle relazioni derivanti dalla sua qualità di esponente di rilievo della Democrazia Cristiana siciliana – contribuito sistematicamente e consapevolmente alle attività e al raggiungimento degli scopi criminali di Cosa nostra, mediante la strumentalizzazione della propria attività politica, nonché delle attività politiche ed amministrative di esponenti della stessa area, collocati in centri di potere istituzionale (amministratori comunali, provinciali e regionali) e sub-istituzionali (enti pubblici e privati), onde agevolare la attribuzione di appalti, concessioni, licenze, finanziamenti, posti di lavoro ed altre utilità in favore di membri di organizzazioni criminali di stampo mafioso”.
Il thema decidendum sotteso alla vicenda processuale, che sembra scontare fin dall’origine l’insufficiente determinatezza nella descrizione fattuale dell’imputazione contestata, riguarda quella particolare forma di contiguità alla mafia comunemente definita come “patto di scambio politico-mafioso”. In forza dell’accordo, a fronte del richiesto appoggio dell’associazione mafiosa nelle competizioni elettorali succedutesi nel corso della sua carriera locale o nazionale, il personaggio politico, senza essere organicamente inserito come partecipe nelle logiche organizzatorie del sodalizio criminoso, s’impegna a strumentalizzare i poteri e le funzioni collegati alla posizione pubblica conseguente all’esito positivo dell’elezione a vantaggio dello stesso sodalizio, assicurandone così dall’esterno l’accesso ai circuiti finanziari e al controllo delle risorse economiche, ovvero rendendo una serie di favori quale corrispettivo del richiesto procacciamento di voti.
Chiamate a rispondere al quesito interpretativo se sia configurabile il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso, nel caso paradigmatico del patto di scambio tra l’appoggio elettorale da parte della associazione e l’appoggio promesso a questa da parte del candidato, le Sezioni Unite ne condividono la soluzione affermativa unanimemente offerta dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. I, 8/6/1992, Battaglini, Foro it. 1993, II, 133, in una fattispecie nella quale è stata ravvisata, peraltro, l’ipotesi di partecipazione “interna” del politico; Sez. V, 16/3/2000, P.G. in proc. Frasca, Foro it. 2001, II, 80; Sez. VI, 15/5/2000, P.M. in proc. Pangallo, rv. 216815; Sez. V, 26/5/2001, Allegro, rv. 220266; Sez. I, 17/4/2002, Frasca, Foro it. 2003, II, 5; Sez. V, 13/11/2002, Gorgone, rv. 224274; Sez. I, 25/11/2003, Cito, rv. 229991-993; Sez. I, 4/2/2005, Micari), anche se necessitano di essere rivisitate e puntualizzate le ragioni di ordine logico-giuridico che la giustificano.
In linea di principio non può escludersi, infatti, per questa particolare tipologia di relazioni collusive con la mafia che anche la promessa e l’impegno del politico di attivarsi, una volta eletto, a favore della cosca mafiosa possano già integrare, di per sé, gli estremi del contributo atipico del concorrente eventuale nel delitto associativo, a prescindere dalle successive condotte di esecuzione dell’accordo valutabili sotto il profilo probatorio.
D’altra parte, la scelta legislativa di incriminare con la nuova fattispecie dell’art. 416 ter cod. pen. (introdotta dall’art. 11 ter d.l. n. 306/1992, conv. dalla l. n. 356/1992, in funzione complementare rispetto al precetto dell’art. 416 bis, comma 3, ultima parte, al pari inserito dall’art. 11 bis del medesimo decreto legge) l’accordo elettorale politico-mafioso in termini di scambio denaro/voti non può essere intesa come espressiva dell’intento di limitare solo a questa fattispecie l’ambito di operatività dei variegati patti collusivi in materia elettorale con un’associazione mafiosa, negandosi dunque rilievo penale ad ogni altro accordo diverso da quel tipo di scambio. L’esegesi storico-sistematica della disposizione incriminatrice dell’art. 416 ter lascia invero intendere che la soluzione legislativa – in vece dell’emendamento di largo respiro elaborato al comitato ristretto della Commissione Giustizia della Camera dei deputati – sia stata dettata dalla volontà di costruire una specifica e tipica figura, alternativa al modello concorsuale, sì che (come si è già ritenuto dalle Sezioni Unite, sent. 30/10/2002, Carnevale, cit.) “la relativa introduzione deve leggersi come strumento di estensione della punibilità oltre il concorso esterno, e cioè anche ai casi in cui il patto preso in considerazione, non risolvendosi in contributo al mantenimento o rafforzamento dell’organizzazione, resterebbe irrilevante quanto al combinato disposto degli artt. 416 bis e 110 cod. pen.”.
S’intende affermare che neppure un’ampia e diffusa frammentazione legislativa in autonome e tipiche fattispecie criminose dei vari casi di contiguità mafiosa (com’è avvenuto, ad esempio, sul terreno del distinto fenomeno terroristico, mediante l’introduzione delle nuove figure del “finanziamento” di associazioni con finalità di terrorismo – art. 270 bis comma 1 cod. pen., ins. dall’art. 1.1 d.l. n. 374/2001 conv. in l. n. 438/2001 -, ovvero dell’ “arruolamento” e “addestramento” di persone per il compimento di attività con finalità di terrorismo anche internazionale – artt. 270 quater e 270 quinquies cod. pen., ins. dall’art. 15.1 d.l. n. 144/2005 conv. in l. n. 155/2005 -) sarebbe comunque in grado di paralizzare l’espansione operativa della clausola generale di estensione della responsabilità per i contributi atipici ed esterni diversi da quelli analiticamente elencati, secondo il modello dettato dall’art. 110 cod. pen. sul concorso di persone nel reato, se non introducendosi una disposizione derogatoria escludente l’applicabilità della suddetta clausola per i reati associativi.
E però, ammessa l’astratta configurabilità delle regole del concorso eventuale anche per l’ipotesi di accordo politico-mafioso diverso dallo scambio denaro/voti, occorre trarne le conseguenze in punto di rigorosa ricostruzione dei requisiti di fattispecie, con particolare riguardo, oltre che al dolo, anzitutto all’efficacia causale del contributo atipico del concorrente esterno.
Non basta certamente la mera “disponibilità” o “vicinanza”, né appare sufficiente che gli impegni presi dal politico a favore dell’associazione mafiosa, per l’affidabilità e la caratura dei protagonisti dell’accordo, per i connotati strutturali del sodalizio criminoso, per il contesto storico di riferimento e per la specificità dei contenuti del patto, abbiano il carattere della serietà e della concretezza. Ed invero, la promessa e l’impegno del politico (ad esempio, nel campo – pure oggetto dell’imputazione – della programmazione, regolamentazione e avvio di flussi di finanziamenti o dell’aggiudicazione di appalti di opere o servizi pubblici a favore di particolari imprese) in tanto assumono veste di apporto dall’esterno alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione mafiosa, rilevanti come concorso eventuale nel reato, in quanto, all’esito della verifica probatoria ex post della loro efficacia causale e non già mediante una mera valutazione prognostica di idoneità ex ante (che pure sembra acriticamente recepita in talune decisioni di legittimità, fra quelle sopra citate), si possa sostenere che, di per sé, abbiano inciso immediatamente ed effettivamente sulle capacità operative dell’organizzazione criminale, essendone derivati concreti vantaggi o utilità per la stessa o per le sue articolazioni settoriali coinvolte dall’impegno assunto. Il politico, concorrente esterno, viene in tal modo ad interagire con i capi e i partecipi nel funzionamento dell’organizzazione criminale, che si modula in conseguenza della promessa di sostegno e di favori mediante le varie operazioni di predisposizione e allocazione di risorse umane, materiali, finanziarie e di selezione strategica degli obiettivi, più in generale di equilibrio degli assetti strutturali e di comando, derivandone l’immediato ed effettivo potenziamento dell’efficienza operativa dell’associazione mafiosa con riguardo allo specifico settore di influenza.
Una volta prospettata l’ipotesi di accusa in riferimento al patto elettorale politico-mafioso, si rivela quindi necessaria la ricerca e l’acquisizione probatoria di concreti elementi di fatto, dai quali si possa desumere con logica a posteriori che il patto ha prodotto risultati positivi, qualificabili in termini di reale rafforzamento o consolidamento dell’associazione mafiosa, sulla base di generalizzazioni del senso comune o di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità.
Con l’avvertenza peraltro che, laddove risulti indimostrata l’efficienza causale dell’impegno e della promessa di aiuto del politico sul piano oggettivo del potenziamento della struttura organizzativa dell’ente, non è consentito convertire surrettiziamente la fattispecie di concorso materiale oggetto dell’imputazione in una sorta di -apodittico ed empiricamente inafferrabile- contributo al rafforzamento dell’associazione mafiosa in chiave psicologica: nel senso che, in virtù del sostegno del politico, risulterebbero comunque, quindi automaticamente, sia “all’esterno” aumentato il credito del sodalizio nel contesto ambientale di riferimento (ove tuttavia non si accerti e si definisca “occulto” l’accordo) che “all’interno” rafforzati il senso di superiorità e il prestigio dei capi e la fiducia di sicura impunità dei partecipi.
In ordine al quesito interpretativo riportato in premessa e sottoposto all’esame delle Sezioni Unite, dev’essere pertanto enunciato, a norma dell’art. 173.3 disp. att. cod. proc. pen., il seguente principio di diritto: “E’ configurabile il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso nell’ipotesi di scambio elettorale politico-mafioso, in forza del quale il personaggio politico, a fronte del richiesto appoggio dell’associazione nella competizione elettorale, s’impegna ad attivarsi una volta eletto a favore del sodalizio criminoso, pur senza essere organicamente inserito in esso, a condizione che:
a) gli impegni assunti dal politico, per l’affidabilità dei protagonisti dell’accordo, per i caratteri strutturali dell’associazione, per il contesto di riferimento e per la specificità dei contenuti, abbiano il carattere della serietà e della concretezza;
b) all’esito della verifica probatoria ex post della loro efficacia causale risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sé e a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell’accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell’intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali”.
6. — Orbene, ritiene il Collegio che le censure della difesa involgenti la congruenza giuridica e logica della sentenza impugnata siano fondate, atteso che i principi giurisprudenziali sopra enunciati in tema di disciplina normativa della fattispecie concorsuale, ai quali la Corte palermitana pure ha affermato in premessa di volersi programmaticamente ispirare, risultano per contro sistematicamente pretermessi o esplicitamente inosservati in numerosi e cruciali snodi argomentativi della motivazione.
Quanto al momento rappresentativo ed a quello volitivo dell’elemento soggettivo del reato, si è già detto che il dolo deve investire sia il fatto tipico oggetto della previsione incriminatrice sia il contributo causale recato dalla propria condotta alla conservazione o al rafforzamento dell’associazione mafiosa, ben sapendo e volendo il concorrente esterno che il suo apporto è diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio. Ma, a fronte del duplice coefficiente psicologico del dolo come sopra delineato, restano ambigue le soluzioni prospettate nella sentenza di appello, il cui itinerario argomentativo anche su tale punto si rivela dubbio e incerto, fino a tendere in taluni passi ad una connotazione dell’atteggiamento soggettivo addirittura nella forma meno intensa del dolo “eventuale”, inteso come mera accettazione da parte del concorrente esterno del rischio di verificazione dell’evento, ritenuto solamente probabile o possibile insieme ad altri risultati intenzionalmente perseguiti. Operazione questa che, oltre che difficoltosa sul terreno della dimostrazione probatoria per il carattere ipotetico dell’accertamento, si palesa fortemente censurabile, dovendosi ancora una volta sottolineare l’esigenza concettuale – in funzione della rilevata estensione dell’area della tipicità e della punibilità a condotte altrimenti atipiche – che la realizzazione del fatto tipico mediante l’evento di conservazione o rafforzamento dell’associazione mafiosa sia rappresentata e voluta dal concorrente esterno, nel senso sicuramente più pregnante che l’obiettivo del verificarsi del risultato dell’azione criminosa sia accettato e perseguito dall’agente a prescindere dagli scopi ulteriori o ultimi avuti di mira.
Risultano altresì del tutto omesse dal giudice di appello sia l’indagine sui contenuti oggettivi dell’accordo elettorale politico-mafioso, che è rimasto indefinito quanto alla natura degli specifici impegni assunti dal Mannino a sostegno di Cosa nostra, sia la verifica ex post della positiva rilevanza causale del promesso aiuto per la conservazione o il rafforzamento dell’associazione mafiosa, in termini di logica inferenza probatoria dell’effetto di potenziamento delle capacità e strategie operative della medesima.
Da un lato sembrano indeterminate le concrete linee dell’apporto del politico, al di là dell’assicurazione di una generica “disponibilità” o “vicinanza”, di continuative e stabili relazioni personali con esponenti della mafia agrigentina e palermitana, di incontri e frequentazioni giuridicamente indifferenti o di ambigua decifrazione sul piano della “contiguità”. Dall’altro, con riferimento alla mera idoneità ex ante del patto – che si definisce “occulto” – per il rafforzamento della struttura associativa e ad una sorta di “sostegno morale” da esso derivante, si sottolineano la previsione di “favori” nei vari settori di interesse del sodalizio e la “carica psicologica dell’intera organizzazione” per il “rinnovato prestigio criminale acquisito” e per l’ “aspettativa di impunità”. Concetti, questi, fluidi e virtuali dalla cui vaghezza semantica e retorica non sembra lecito, a ben vedere, trarre solide conclusioni probatorie in tema di concorso esterno in associazione mafiosa secondo massime di esperienza empiricamente controllabili.
7. — La sentenza di colpevolezza poggia inoltre su una ratio decidendi che, oltre a rappresentare il frutto di vistose violazioni sia dei canoni sostanziali che di quelli processuali, evidenzia una grave frattura logica del ragionamento probatorio conducente al rovesciamento della decisione assolutoria, in un quadro espositivo graficamente e logicamente sconnesso, caratterizzato da percorsi frammentari e itinerari “carsici”, le cui linee argomentative sono di difficile identificazione e interpretazione.
Il vizio del ragionamento giudiziale è reso innanzi tutto palese dal fatto che il convincimento di responsabilità dell’imputato si è formato anche mediante l’utilizzo, nella valutazione del compendio probatorio, di sentenze non definitive pronunciate da altri giudici penali.
In effetti, oltre le due sentenze irrevocabili prodotte dalla difesa nel corso della rinnovata istruzione dibattimentale (Trib. Palermo 1/3/2000, di assoluzione del Mannino dal reato di corruzione; Trib. Palermo 22/7/2002, di assoluzione del Vita dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa), viene diffusamente citata in motivazione anche la sentenza non definitiva del Tribunale di Palermo 2/7/2002 di condanna di Salamone ed altri per il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen., traendone argomenti per descrivere le varie fasi del sistema di intercettazione degli appalti pubblici, in base all’accordo del tavolino tra mafia, imprenditori e politici, e ritenere provato l’attivo coinvolgimento in esso del Mannino. Sono state ritenute inoltre acquisibili e utilizzabili, non solo come attestato del fatto processuale dalle stesse rappresentato ma anche per trarne elementi di prova in merito agli aspetti di contiguità mafiosa delle condotte del Mannino, le sentenze non definitive di condanna di Inzerillo e Ferraro (Trib. Palermo, 20/11/2000, riformata però in appello in senso assolutorio con sentenza pronunciata il 3/12/2004 nelle more del presente giudizio, e rispettivamente Trib. Caltanissetta, 10/7/2003), nelle quali risultava accertata la mafiosità di soggetti che rivestivano una centrale importanza nella ricostruzione del contributo causale del Mannino all’associazione mafiosa per le consistenti relazioni con essi intessute.
Orbene, la difesa del ricorrente deduce in proposito la nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 111 Cost., 190, 234, 238, 238 bis e 526, in relazione all’art. 178 lett. c) cod. proc. pen., ossia per inosservanza del canone interpretativo relativo alla acquisizione e utilizzabilità di provvedimenti giudiziari non definitivi, per un duplice ordine di ragioni: per avere la Corte preso in esame le citate sentenze di primo grado senza che fosse dato rintracciare nei verbali di udienza un formale provvedimento acquisitivo delle medesime, e quindi in violazione del principio del contraddittorio; per avere la Corte utilizzato tali sentenze non definitive, non come documenti che attestassero l’esistenza del fatto storico della decisione e dei caratteri essenziali della stessa, bensì come mezzo di prova “completo”, nel merito della ricostruzione dei fatti e della valutazione probatoria di quei giudici e, per giunta, senza neppure la verifica critica prescritta dall’art. 238 bis per le sentenze irrevocabili.
Le censure del ricorrente sono fondate sotto entrambi i profili.
Osserva innanzi tutto il Collegio che nel giudizio di appello l’acquisizione di documenti è senz’altro rituale senza che sia necessaria un’apposita ordinanza che disponga a tal fine la rinnovazione parziale del dibattimento (Cass., Sez. VI, 24/11/1993, De Carolis, rv. 197263; Sez. I, 23/9/1998, Cassandra, rv. 212121; Sez. VI, 10/7/2000, D’Ambrosio, rv. 217993; Sez. VI, 2/2/2004, Agate, rv. 228657, per le sentenze irrevocabili; Sez. V, 22/4/2004, Communara, rv. 230238, per le sentenze non irrevocabili). Resta pur sempre ineludibile, tuttavia, che il documento venga legittimamente acquisito al fascicolo per il dibattimento nel contraddittorio fra le parti, derivandone ex adverso, in caso di privata conoscenza del giudice non mediata dalla partecipazione dialettica delle parti alla formazione della prova, l’inutilizzabilità probatoria dello stesso ai fini della deliberazione secondo il chiaro disposto dell’art. 526 comma 1 cod. proc. pen..
Sul distinto tema dei limiti di efficacia dimostrativa e di utilizzabilità delle sentenze pronunciate in procedimenti penali diversi e non ancora divenute irrevocabili si sono invece delineati due contrastanti indirizzi interpretativi nella giurisprudenza della Corte di cassazione. Secondo un primo orientamento, esse costituiscono prova solo dei fatti documentali rappresentati – ad esempio, che un certo imputato sia stato sottoposto a procedimento penale e che la sua posizione sia stata definita in un certo modo – e non della ricostruzione dei fatti accertati nel giudizio e della valutazione probatoria degli stessi da parte di quel giudice, atteso che tale valore probatorio è riconosciuto dall’art. 238 bis solo alle sentenze irrevocabili (Sez. II, 12/3/1996, Lento, Cass. pen. 1997, 1762; Sez. VI, 7/7/1999, Arcadi, rv. 215266; Sez. IV, 5/12/2000, Reina, rv. 218315; Sez. IV, 11/5/2004, Tahir, rv. 228936). A tale orientamento si contrappone l’altro, di matrice sostanzialista, secondo cui non può escludersi che il giudice, in base al principio del libero convincimento, possa comunque trarre dal provvedimento elementi di giudizio finalizzati all’accertamento della verità (Sez. II, 16/1/1996, Romeo, rv. 204767; Sez. III, 4/12/1996, Eviani, rv. 207300; Sez. I, 2/5/1997, Dragone, rv. 208573; Sez. VI, 2/5/1998, De Michelis, rv. 211999; Sez. II, 5/5/2003, Passalacqua, rv. 225157; Sez. V, 22/10/2003, Leoni, rv. 226839; Sez. V, 26/10/2004, P.G. in proc. Tripodi, rv. 230457).
Le Sezioni Unite condividono la prima e più rigorosa soluzione ermeneutica sul rilievo che le sentenze non irrevocabili – delle quali è certamente ammissibile la produzione e l’acquisizione al pari degli altri documenti ex artt. 234 comma 1 e 236 -, siccome non ancora assistite dalla intangibilità del decisum, sono idonee, in ragione dell’oggetto della rappresentazione incorporata nella scrittura, a documentare il (e ad essere utilizzate come prova extra- e pre- costituita limitatamente al) mero fatto storico dell’esistenza della decisione e le scansioni delle relative vicende processuali, ma non la ricostruzione, né il ragionamento probatorio sui fatti oggetto di accertamento in quei procedimenti, inerenti più propriamente alla regiudicanda ancora in discussione, per la cui valutazione soccorre lo specifico modulo acquisitivo dei verbali di prove di altri procedimenti predisposto dall’art. 238 del codice di rito.
A questa regola di indubbia ragionevolezza sistematica deroga infatti, limitatamente alle sentenze irrevocabili, la disposizione dell’art. 238 bis dettata da esigenze eminentemente pratiche di coordinamento probatorio fra processi. Norma, questa, sicuramente eccezionale nell’impianto codicistico ispirato ai principi di oralità e immediatezza, rispetto alla quale si sostiene peraltro nella giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Sez. I, 16/11/1998, Hass, rv. 211768) che l’acquisizione agli atti del procedimento di sentenze divenute irrevocabili neppure comporta, per il giudice di detto procedimento, alcun automatismo nel recepimento e nell’utilizzazione a fini decisori dei fatti in esse accertati, né tanto meno dei giudizi di fatto contenuti nei passaggi argomentativi della motivazione delle suddette sentenze, dovendosi al contrario ritenere che quel giudice conservi integra l’autonomia critica e la libertà delle operazioni logiche di accertamento e di formulazione di giudizio a lui istituzionalmente riservate.
In ordine all’ulteriore quesito interpretativo sottoposto al vaglio delle Sezioni Unite, dev’essere pertanto enunciato il seguente principio di diritto: “Le sentenze pronunciate in procedimenti penali diversi e non ancora divenute irrevocabili, legittimamente acquisite al fascicolo per il dibattimento nel contraddittorio fra le parti, possono essere utilizzate come prova limitatamente all’esistenza della decisione e alle vicende processuali in esse rappresentate, ma non ai fini della valutazione delle prove e della ricostruzione dei fatti oggetto di accertamento in quei procedimenti”.
8. — Colgono nel segno anche le critiche del ricorrente circa la disapplicazione dei criteri legali di valutazione della prova indiziaria e l’incompletezza o la carenza della motivazione, in ordine alla basilare operazione logica tendente alla verifica dei singoli episodi indicati dall’accusa come sintomatici delle specifiche condotte di favore poste in essere dal Mannino in esecuzione del patto elettorale.
Essendo stato privilegiato dalla Corte palermitana il metodo di lettura unitaria e complessiva dell’intero compendio probatorio, a fronte di una pretesa polverizzazione ed atomizzazione delle fonti di prova asseritamente operata dal giudice di primo grado, si è finito per dare rilevanza anche ad una serie di indizi che, pur analiticamente presi in esame in prime cure e ritenuti ciascuno di essi incerto, non preciso né grave (ovvero, trattandosi di dichiarazioni dirette o de relato di collaboratori di giustizia, neppure assistite da riscontri individualizzanti) e perciò probatoriamente ininfluente, sembravano tuttavia raccordabili e coerenti con la narrazione storica delle vicende, come ipotizzata dall’accusa e recepita dai giudici di appello.
Ma un siffatto metodo di assemblaggio e di mera sommatoria degli elementi indiziari viola le regole della logica e del diritto nell’interpretazione dei risultati probatori. Secondo i rigorosi criteri legali dettati dall’art. 192 comma 2 cod. proc. pen. gli indizi devono essere, infatti, prima vagliati singolarmente, verificandone la valenza qualitativa individuale e il grado di inferenza derivante dalla loro gravità e precisione, per poi essere esaminati in una prospettiva globale e unitaria, tendente a porne in luce i collegamenti e la confluenza in un medesimo, univoco e pregnante contesto dimostrativo: sicché ogni “episodio” va dapprima considerato di per sé come oggetto di prova autonomo onde poter poi ricostruire organicamente il tessuto della “storia” racchiusa nell’imputazione (da ultimo, per un’analoga fattispecie di concorso esterno in associazione mafiosa, v. Cass., Sez. VI, 6/4/2005, P.G. in proc. Marasà).
Parimenti fondata risulta l’ulteriore doglianza, collegata alla censura di incostituzionalità trattata in premessa, con la quale il ricorrente lamenta il difetto di motivazione della sentenza impugnata, con riguardo all’omessa valutazione di prove decisive indicate nelle memorie depositate nel procedimento di appello per contrastare le ragioni di gravame del P.M., nelle quali, con accenti anche critici rispetto ai rilievi fattuali della sentenza assolutoria, erano state trattate talune circostanze delle vicende riguardanti i rapporti con i Salvo, l’incontro del Mannino con Pennino e Vella, l’assunzione di Mortillaro, il sistema di controllo degli appalti pubblici, la formazione del gruppo politico palermitano, gli attentati di Sciacca, la vicenda narrata dal collaboratore Bono, il pranzo alla taverna Mosè, le nozze Caruana, i rapporti con Salemi e Virone.
In effetti, non è dato rinvenire nella motivazione della impugnata decisione alcun cenno almeno alla terza memoria depositata dalla difesa in appello dopo la requisitoria del P.G., nella quale venivano analizzate criticamente e diffusamente talune emergenze probatorie attinenti agli episodi sopra citati, onde inferirne l’insussistenza in fatto e in diritto degli elementi costitutivi del contestato concorso esterno. E la mancata risposta del giudice di appello alle argomentazioni svolte dalla difesa circa la portata di decisive risultanze probatorie inficia la tenuta logico-argomentativa della sentenza di condanna (Sez. Un., 30/10/2003, Andreotti, cit.).
Appare infine altrettanto evidente la violazione del principio più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. II, 12/12/2002, P.G. in proc. Contrada, rv. 225564; Sez. IV, 29/11/2004, P.G. in proc. Marchiorello, rv. 231136), per il quale il giudice di appello che riformi totalmente la sentenza di primo grado, caratterizzata come nella specie da un solido impianto argomentativo, ha l’obbligo non solo di delineare con chiarezza le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio ma anche di confutare specificamente e adeguatamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza e, soprattutto quando all’assoluzione si sostituisca la decisione di colpevolezza dell’imputato, di dimostrarne con rigorosa analisi critica l’incompletezza o l’incoerenza, non essendo altrimenti razionalmente giustificata la riforma.
9. — Alla luce dei principi giurisprudenziali sopra enucleati in tema di requisiti della fattispecie criminosa di concorso esterno in associazione mafiosa, con particolare riguardo all’ipotesi del patto elettorale politico-mafioso, e dell’analisi retrospettiva della struttura razionale delle inferenze probatorie che legano la linea logica della motivazione della sentenza impugnata, ritiene in definitiva il Collegio che risulta evidente tanto la violazione della legge penale sostanziale, con specifico riguardo alle regulae iuris stabilite dagli artt. 110 e 416 bis cod. pen., quanto di quella processuale in tema di applicazione dei criteri di utilizzazione e valutazione delle prove dettati dagli artt. 192, 234, 238 bis e 526 comma 1 cod. proc. pen., nonché la rilevanza testuale ex art. 606 comma 1 lett. e) dell’illogicità del ragionamento probatorio.
D’altra parte, prendendo la motivazione ad oggetto fatti diversi da quelli rilevanti per la disposizione incriminatrice, si è creata una palese asimmetria fra l’interpretazione della norma sostanziale sul concorso esterno in associazione mafiosa e il giudizio di fatto. Di talché, solo configurandosi in termini corretti l’impostazione giuridica dei requisiti soggettivi ed oggettivi della fattispecie criminosa, viene a ridefinirsi l’area della prova e della motivazione mediante la prospettazione di più solidi temi probatori e la valorizzazione in tal senso del materiale indiziario.
I rilevati vizi logici e giuridici della sentenza impugnata ne giustificano pertanto l’annullamento in ordine ai molteplici punti presi in considerazione (restando assorbite le doglianze prospettate in subordine dal ricorrente), con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Palermo la quale, uniformandosi ai principi di diritto precedentemente enunciati, dovrà rivalutare tutti gli elementi di prova legittimamente acquisiti ed utilizzabili.
Nell’affidare al giudice di rinvio il delicato compito di delineare la corretta qualificazione giuridica e l’eventuale rilevanza penale delle condotte ascritte al Mannino, in stretta correlazione con la specifica situazione probatoria e con l’identificazione dell’effettivo contributo materiale dallo stesso apportato alla conservazione o al rafforzamento di Cosa nostra, sembra infine opportuno ribadire che nella pur accertata “vicinanza” e “disponibilità” di un personaggio politico nei confronti di un sodalizio criminoso o di singoli esponenti del medesimo sono da ravvisare relazioni e contiguità sicuramente riprovevoli da un punto di vista etico e sociale, ma di per sé estranee, tuttavia, all’area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione mafiosa, la cui esistenza postula la rigorosa verifica probatoria, nel giudizio, degli elementi costitutivi del nesso di causalità e del dolo del concorrente.
PER QUESTI MOTIVI
La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite,
annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame ad altra sezione della Corte di appello di Palermo.

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Ordinanza Slimani

UFFICIO DI SORVEGLIANZA DI LECCE
IL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA

Ha pronunciato la seguente ordinanza sul reclamo proposto da Slimani Abdelaziz, nato in Tunisia il 9 agosto 1982, detenuto a Lecce, rappresentato e difeso dall’Avv. Alessandro Stomeo, contro il Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato di Lecce, con l’intervento del Procuratore Aggiunto della Procura della Repubblica di Lecce dott. Ennio Cillo, avente ad oggetto la richiesta di accertamento della lesione dei diritti soggettivi del detenuto previsti dagli artt. 1, 5, 6, 12, l. 354/1975, artt. 6, 7, d.P.R. n. 230/2000, art. 3 CEDU, artt. 2, 3 e 27 Cost. e la conseguente liquidazione a titolo di indennizzo della somma di 7.000,00 euro o quella maggiore ritenuta congrua secondo discrezionale giudizio di equità per aver sopportato detenzione inumana e degradante.

FATTO

Con reclamo proposto in data 17 giugno 2010 lo Slimani rappresentava di trovarsi ristretto a far data dal 4 luglio 2009 in forza di ordine di esecuzione emesso dalla Procura della Repubblica di Padova n. 1509/08 SIEP, presso la Casa circondariale di Lecce, all’interno di una cella della grandezza circa di 11,50 mq, dotata di un’unica finestra, con annesso servizio igienico privo di finestra, unitamente ad altri due detenuti, fruendo di letti a castello, il più alto dei quali situato ad appena 50 cm. dal soffitto. Costretto a trascorrere all’interno della suddetta cella 18 ore al giorno, in quanto ammesso a fruire della possibilità di sostare per due ore la mattina e due ore nel pomeriggio in uno spazio comune all’aperto, chiuso da mura di cinta e protetto da rete a copertura. Inoltre, si duoleva di non poter fruire di alcuno spazio destinato alla socialità, alla lettura, alla preghiera, all’esercizio fisico. Nel corso delle suddette 18 ore, inoltre, la grata della cella secondo la prospettazione dello Slimani sarebbe restata chiusa ininterrottamente, ed il blindo, invece, tra le 22.00 e le 7.00. Ancora il bagno della cella non sarebbe stato provvisto di acqua calda e l’impianto di riscaldamento nel periodo invernale sarebbe stato acceso solo dalle ore 20.00 alle ore 21.00. Sempre nello stesso periodo lo Slimani lamentava di non essere stato ammesso a svolgere attività lavorativa o a partecipare ad altre attività trattamentali o ad esercitare i riti inerenti il proprio credo religioso. Rappresentava, infine, il detenuto che l’elevato sovraffollamento della Casa circondariale di Lecce, destinata ad ospitare meno di 700 detenuti, ma di fatto abitata da poco meno di 1400 ristretti, sarebbe stato presumibilmente all’origine dei due suicidi avvenuti nel mese precedente al deposito del ricorso, e la stessa situazione lo avrebbe indotto ad uno sciopero della fame in data 8 maggio 2010 culminato con un gesto di autolesionismo con tagli profondi.
Dalla presenza di simili condizioni il reclamante lamentava la lesione della dignità e dei diritti umani minimi sanciti dalle Convenzioni internazionali e dalla Costituzione italiana, che non possono essere negati ad alcun detenuto indipendentemente dal grado di pericolosità sociale  che lo caratterizza o dal comportamento antigiuridico dallo stesso posto in essere. Al contempo, evidenziava il mancato rispetto delle norme dell’ordinamento penitenziario citate in epigrafe, nonché dell’art. 3 CEDU che proibisce in termini assoluti la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti. A tal riguardo sottolineava come il CPT (Comitato per la Prevenzione della Tortura) ha fissato in 7 mq per persona la superficie minima auspicabile per una cella di detenzione (in base al secondo rapporto generale CPT/Inf(92)3). Superficie indicata per celle destinate alla detenzione temporanea e, quindi, inferiore alla metratura quadrata necessaria per i periodi di detenzione ordinari che devono caratterizzarsi non solo per il soddisfacimento di esigenze cautelari, ma anche per consentire la rieducazione del condannato. Al di sotto dello spazio minimo indicato dal CPT la Corte europea dei diritti dell’uomo avrebbe mostrato di ritenere compensabile il deficit abitativo delle celle in ragione della possibilità di viveri spazi comuni, di fruire di adeguati servizi igienici, di palestre, biblioteche, luoghi di lavoro e di formazione. Possibilità quest’ultime che il detenuto negava di aver avuto, così avendo sommato alla mancanza di spazio vitale, l’assenza delle opportunità sopra descritte e di conseguenza avendo sofferto una detenzione inumana e degradante, tale da poter essere valutata alla stregua di una tortura secondo le indicazioni offerte dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 16 luglio 2009 nell’affaire Sulejmanovic c. Italia. Circa la commisurazione del danno morale patito lo Slimani richiamava le indicazioni offerte dalla citata sentenza della Corte europea, che ha condannato lo Stato italiano a liquidare a titolo di indennizzo una somma compresa tra i 200,00 ed i 300,00 euro mensili, tanto da liquidare per un periodo di detenzione intercorrente tra novembre 2002 ed aprile 2003 la somma di euro 1000,00 durante il quale aveva avuto a disposizione uno spazio minimo vitale inferiore a 3 mq. A giudizio del detenuto, però, la somma in questione andrebbe aumentata in modo più che proporzionale al crescere del periodo di detenzione, atteso che il danno subito dal detenuto aumenta in modo esponenziale con il prolungarsi del periodo di detenzione secondo modalità degradanti, da ciò deriva la richiesta di corresponsione della somma di 7.000,00 euro per 11 mesi di detenzione oltre le spese legali.
In data 21 ottobre 2010 il reclamante depositava memorie integrative ponendo l’accento sull’obbligo per il giudice nazionale di conformarsi alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo e chiedendo di acquisire tramite apposita istruttoria conferma alla prospettazione fattuale esposta con il ricorso introduttivo. Sempre con la stessa memoria la difesa dello Slimani approfondiva la questione relativa alla sussistenza della giurisdizione del Magistrato di Sorveglianza non solo in rapporto agli altri organi giurisdizionali italiani, ma anche in relazione alla giurisdizione della Corte europea.
In data 25 novembre 2010 si costituiva in giudizio l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Lecce con una memoria di stile.
In data 9 giugno 2011 l’Avvocatura poneva in evidenza come il reclamante avesse trascorso la sua detenzione all’interno della cella di superficie netta pari a mq 10,17 con un’altezza pari a 2,70 ml., dotata di ampia finestra e di annesso locale con servizi igienici, privo di finestra ma dotato di areazione forzata. Nel merito l’Avvocatura ribadiva come, da un lato, l’indicazione dei 7 mq per detenuto da parte del CPT fosse stata valutata come un mero auspicio nelle opinioni dei giudici dissenzienti Zagrebelsky e Jociene nel giudizio Sulejmanovic c. Italia sopra citato. Dall’altro, che la Corte europea in quella sentenza aveva valutato sufficiente uno spazio di 3,24 mq, ossia tale da non configurare tortura e nel giudizio in corso sarebbe emersa la disponibilità a favore dello Slimani di 3,39 mq. Inoltre l’altezza dell’ultimo letto dal soffitto corrisponderebbe a quella dell’ultima cuccetta in un vagone letto. Quanto alla mancanza di acqua calda l’Avvocatura sottolineava la possibilità concessa ai detenuti di poter fruire di acqua calda nel locale docce nelle fasce orarie 8,30-11,30 e 12,15-15,15. Circa il riscaldamento evidenziava come nel 2009-2010 fosse stato acceso 5 ore al giorno, mentre nel 2010-2011 4 ore al giorno. Circa le attività trattamentali veniva sottolineato che lo Slimani aveva avuto accesso al corso di scuola elementare. Infine, sulla possibilità di accesso all’assistenza religiosa, ai locali destinati alla biblioteca, ai colloqui familiari e agli orari che scandiscono la quotidianità all’interno della Casa circondariale di Lecce l’Avvocatura si richiamava ai precetti contenuti nel regolamento interno d’istituto, desumendo da tutto ciò l’assenza di una lesione apprezzabile in capo al detenuto nonostante il fenomeno di sovraffollamento che ha interessato la Casa circondariale di Lecce.
Pertanto all’odierna udienza le parti hanno così concluso:
l’Avv. Stomeo difensore del reclamante per l’accoglimento del reclamo
L’Avv. Gustapane per l’Avvocatura distrettuale dello Stato di Lecce per il rigetto del reclamo
Il Proc. Aggiunto della Repubblica di Lecce, dott. Cillo per il rigetto del reclamo.

DIRITTO

1. La richiesta avanzata dal detenuto dinanzi all’odierno giudicante si presenta come assolutamente nuova nel panorama giurisprudenziale italiano e pertanto necessita di un inquadramento di carattere generale sia pure nel rispetto del principio della domanda che sovrintende, quale regola generale della giurisdizione di diritto soggettivo, anche l’odierna fattispecie. La soluzione al quesito in esame, in realtà, presuppone il superamento di altra questione ossia se il fondamento dell’odierno reclamo poggi sulla lesione di una causa petendi riconducibile ad una posizione giuridica soggettiva o se invece l’odierno reclamante avanzi domanda di rifusione patrimoniale a tutela di un mero interesse di fatto. La soluzione prescelta finisce, infatti, per riverberarsi anche sulla natura giuridica dello strumento di tutela invocato. Optando per la prima soluzione dovrà concludersi nel senso che il Magistrato di Sorveglianza viene adito in veste giurisdizionale, optando per la seconda soluzione dovrà concludersi, invece, nel senso che il Magistrato di Sorveglianza interviene in veste latu sensu amministrativa, con ciò che ne consegue in termini di disciplina applicabile in sede processuale o procedimentale e soprattutto di efficacia della decisione assunta, nonché di immediata reiezione della richiesta giacché non esiste nell’ordinamento alcuna norma che investa il Magistrato di Sorveglianza di un potere non giurisdizionale di rifusione di somme a favore di interessi non giuridicamente protetti del detenuto. Può brevemente rammentarsi come appaia assolutamente pacifico che all’ingresso del circuito penitenziario il detenuto si vede riconosciuto dall’ordinamento giuridico nei confronti dell’amministrazione penitenziaria un proprio patrimonio di situazioni soggettive meritevoli di tutela. Questa conclusione poggia, oltre che in via diretta sull’esame della l. 354/1975 e del d.P.R. 230/2000, anche sull’esegesi offerta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ad esempio, in tema di tutela del diritto alla corrispondenza a cominciare dalle sentenze del 15 novembre 1996 nei casi Diana c. Italia e Domenichini c. Italia, cui ha fatto seguito la legge 8 aprile 2004, n. 95, che introducendo l’art. 18-ter, l. n. 354/1975, prevede che le limitazioni alla corrispondenza dei detenuti vengano disposte solo a seguito di provvedimento dell’autorità giurisdizionale. Nonché sull’interpretazione contenuta in alcune pronunce cardine della Corte costituzionale, tra le quali in modo esemplare si presenta Corte cost. 11 febbraio 1999, n. 26, che afferma: “L’idea che la restrizione della libertà personale possa comportare conseguenzialmente il disconoscimento delle posizioni soggettive attraverso un generalizzato assoggettamento all’organizzazione penitenziaria è estranea al vigente ordinamento costituzionale, il quale si basa sul primato della persona umana e dei suoi diritti.
I diritti inviolabili dell’uomo, il riconoscimento e la garanzia dei quali l’art. 2 della Costituzione pone tra i principi fondamentali dell’ordine giuridico, trovano nella condizione di coloro i quali sono sottoposti a una restrizione della liberta personale i limiti a essa inerenti, connessi alle finalità che sono proprie di tale restrizione, ma non sono affatto annullati da tale condizione. La restrizione della libertà personale secondo la Costituzione vigente non comporta dunque affatto una capitis deminutio di fronte alla discrezionalità dell’autorità preposta alla sua esecuzione (sentenza n. 114 del 1979).
L’art. 27, terzo comma, della Costituzione stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Tali statuizioni di principio, nel concreto operare dell’ordinamento, si traducono non soltanto in norme e direttive obbligatorie rivolte all’organizzazione e all’azione delle istituzioni penitenziarie ma anche in diritti di quanti si trovino in esse ristretti. Cosicché l’esecuzione della pena e la rieducazione che ne è finalità – nel rispetto delle irrinunciabili esigenze di ordine e disciplina – non possono mai consistere in “trattamenti penitenziari” che comportino condizioni incompatibili col riconoscimento della soggettività di quanti si trovano nella restrizione della loro liberta. La dignità della persona (art. 3, primo comma, della Costituzione) anche in questo caso – anzi:
soprattutto in questo caso, il cui dato distintivo è la precarietà degli individui, derivante dalla mancanza di liberta, in condizioni di ambiente per loro natura destinate a separare dalla società civile – è dalla Costituzione protetta attraverso il bagaglio degli inviolabili diritti dell’uomo che anche il detenuto porta con sè lungo tutto il corso dell’esecuzione penale, conformemente, del resto, all’impronta generale che l’art.1, primo comma, della legge n. 354 del 1975 ha inteso dare all’intera disciplina dell’ordinamento penitenziario”. Possiamo dire, quindi, che grazie ai precetti fondamentali contenuti nella Carta costituzionale che trovano espresso recepimento anche a livello di legislazione ordinaria non può più ritenersi che la detenzione determina il sorgere di una relazione di supremazia speciale tra amministrazione e condannato tale da azzerare il patrimonio giuridico di quest’ultimo. Con l’ingresso del detenuto nel circuito penitenziario non vi è alcuna abdicazione ad i diritti fondamentali che fanno parte del patrimonio indefettibile dell’uomo, ma si registra la limitazione di alcuni di questi diritti, si pensi alla libertà di movimento o alla libertà di comunicazione, ovvero un soddisfacimento degli stessi con modalità distinte rispetto a quelle previste per tutti coloro che non sono presi in carico nel circuito penitenziario. Ulteriori esempi possono ricercarsi nella tutela del diritto alla salute, se si pone mente alla disciplina dettata dall’art. 11, l. 354/1975, ma anche nelle modalità di accesso alla tutela giurisdizionale che avviene in forme diversificate rispetto a quanto accade per chi sia estraneo al regime intramurario, tenendo in particolare considerazione le difficoltà che incontra il detenuto nel relazionarsi anche con gli organi giurisdizionali. Infine, si registra la nascita di nuove posizioni giuridiche derivanti dalla relazione tra l’amministrazione penitenziaria ed il detenuto, alcune delle quali, direttamente riconducibili all’esecuzione della pena, possono variamente atteggiarsi sotto forma di interesse legittimo o di diritto soggettivo. E tra queste alcune vedono nell’amministrazione un referente indefettibile al fine di assicurare il loro soddisfacimento. Non bisogna in definitiva pensare al detenuto come ad una soggetto che nel varcare le mura di cinta del carcere subisca una riduzione del proprio patrimonio giuridico, sicché le sue posizioni giuridiche vengono ricondotte alla situazione di meri interessi di fatto. Ma come ad un individuo che conserva l’intero bagaglio di quei diritti fondamentali inalienabili, che possono subire una limitata compressione nel rispetto del precetto scolpito nell’art. 27 cost., ed acquisisce nuove posizioni giuridiche, la cui tutela deve essere assicurata, ponendo altrimenti a rischio l’utilità stessa della pena. Dalla prospettazione offerta dallo Slimani nel suo reclamo si evince la richiesta di risarcimento per posizioni soggettive che ricevono dall’ordinamento autonomo riconoscimento giuridico. Sicché può concludersi che in questa sede il detenuto avanzi una richiesta di ristoro patrimoniale in relazione a situazioni di interesse qualificate e differenziate dall’ordinamento, che devono trovare adeguata risposta giurisdizionale in omaggio ai principi di effettività della tutela giurisdizionale consacrati negli artt. 24 e 113 cost.
2. Risolta positivamente la prima questione appare opportuno verificare la sussistenza di un eventuale difetto di giurisdizione del Magistrato di Sorveglianza, che sebbene non eccepita dalla difesa dell’amministrazione ben potrebbe essere rilevata d’ufficio dal Giudice, anche al fine di ricorrere agli strumenti a tutela del reclamante contenuti nella disciplina della translatio judicii assicurata dall’art. 59 della l. 69/2009. Al quesito, può darsi risposta solo a seguito della ricostruzione della natura e della disciplina della giurisdizione esercitata dal Magistrato di Sorveglianza in sede di reclamo. La vicenda ben nota grazie all’intervento del Giudice delle leggi può essere ricostruita nei seguenti termini. La sentenza della Corte costituzionale, 3 luglio 1997, n. 292, pur non disconoscendo la doppia anima che può assumere il reclamo ai sensi dell’art. 35, l. 354/1975, dinanzi al Magistrato di Sorveglianza, ha chiaramente affermato che: “Il procedimento dinanzi al magistrato di sorveglianza costituente rimedio per far valere diritti non comprimibili dei detenuti che sia possibile far valere soltanto in quella sede ha natura di giudizio e pertanto in tale sede quel magistrato è legittimato a sollevare questioni di costituzionalità”. Questa pronuncia è stata seguita da altro e più importante intervento della Consulta, che con la sentenza del 17 febbraio 1999, n. 26, ha dichiarato “…incostituzionali, per difetto della garanzia giurisdizionale sancita dall’art. 24 cost., gli art. 35 e 69 l. 26 luglio 1975 n. 354 (il secondo nel testo sostituito dall’art. 21 l. 10 ottobre 1986 n. 663), nella parte in cui non prevedono, in favore di chi subisca restrizioni della libertà personale, una tutela giurisdizionale nei confronti di atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi di diritti, quando la lesione sia potenziale conseguenza del regime di sottoposizione a quella restrizione”. L’intervento del Giudice delle leggi non può però dirsi di natura ortopedica, atteso che alla declaratoria di incostituzionalità non ha fatto seguito l’indicazione di una disciplina processuale alla quale fare riferimento, avendo ritenuto la Corte che: “…spetta, tuttavia, al legislatore, di fronte ai diversi meccanismi ipotizzabili, rimediare a detta carenza nell’esercizio della funzione normativa ad esso appartenente in attuazione dei principi della Costituzione”. L’autorevole precedente della Consulta si apprezza per l’ampio fondamento che assegna alla giurisdizione del Magistrato di Sorveglianza, la Corte in quella sede precisa, infatti, che la copertura giurisdizionale deve riguardare non solo i diritti costituzionalmente garantiti, ma tutte le posizioni giuridiche soggettive, giacché diversamente opinando, ossia se si operasse un distinguo tra posizioni di rilievo costituzionale e non, finirebbe per essere leso il diritto costituzionale alla tutela giurisdizionale assicurato dagli artt. 24 e 113 cost. La Consulta pone l’accento, in particolare, su quelle posizioni giuridiche che possono essere lese a seguito di provvedimenti dell’amministrazione che attraverso misure speciali, modificano le modalità concrete del “trattamento” di ciascun detenuto (un riferimento immediato può essere fatto all’art. 14-bis o all’art. 41-bis, l. 354/1975); ovvero su quelle incise da determinazioni amministrative prese nell’ambito della gestione ordinaria della vita del carcere. Categoria quest’ultima nell’ambito della quale sembra poter trovare collocazione la prospettazione del reclamante. Un simile approdo appare, però ancora non del tutto confortante, atteso che le considerazioni svolte dal Giudice delle leggi devono essere attualizzate. Appare, quindi, opportuno coprire sul piano interpretativo il decennio che separa la sentenza n. 16/1999, dal deposito della presente ordinanza. Una simile urgenza appare ancor più cogente sol che si ponga mente ai cambiamenti radicali che hanno interessato le relazioni giuridiche tra amministrazione, cittadino sul piano della tutela giurisdizionale, nonché al mutamento dei rapporti tra plessi giurisdizionali, che sottendono alla generalizzazione del principio della translatio judicii. Per consolidare, quindi, la premessa in merito alla sussistenza sulla fattispecie oggetto del presente giudizio della giurisdizione del Magistrato di Sorveglianza è necessario compiere un duplice percorso. Dapprima escludere attraverso un’analisi del diritto positivo che vi siano indicazioni che militino nel senso di dover rimettere la questione al giudice amministrativo per difetto di giurisdizione o al giudice civile per difetto di competenza. In seguito valutare se esistano ragioni dalle quali desumere che pur a fronte della genericità del dettato normativo di cui all’art. 35, l. 354/1975, possa ritenersi che il Magistrato di Sorveglianza possa adottare una pronuncia con la quale condannare l’amministrazione a risarcire il danno a favore del detenuto.
2.1. Sulla prima questione appare opportuno, specie all’indomani dell’entrata in vigore del Codice del processo amministrativo (d.lgs. 104/2010), limitarsi ad aggiornare alcune considerazioni svolte in altra sede da questo Giudicante. Quanto alla possibile ricorrenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ammissibile in astratto, come si può desumere da Corte cost. 140/2007, anche in relazione alle controversie aventi ad oggetto diritti di rango costituzionale incisi dal potere amministrativo, l’unica norma di riferimento potrebbe essere rinvenuta nell’art. 133, comma 1, lett. c), d.lgs. 104/2010 secondo la quale: “Sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salvo ulteriori previsioni di legge: …le controversie in materia di pubblici servizi relative a concessioni di pubblici servizi, escluse quelle concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi, ovvero relative a provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione o dal gestore di un pubblico servizio in un procedimento amministrativo, ovvero ancora relative all’affidamento di un pubblico servizio, ed alla vigilanza e controllo nei confronti del gestore, nonché afferenti alla vigilanza sul credito, sulle assicurazioni e sul mercato mobiliare, al servizio farmaceutico, ai trasporti, alle telecomunicazioni e ai servizi di pubblica utilità” in combinato disposto con il dettato dell’art. 7 comma 5, c.p.a. (Codice del processo amministrativo): “Nelle materie di giurisdizione esclusiva, indicate dalla legge e dall’articolo 133, il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi”. L’art. 133 c.p.a. nasce sulle ceneri dell’art. 33, d.lgs. n. 80/98, che già assegnava al g.a. la giurisdizione esclusiva in materia di servizi pubblici. Non è dubitabile che il trattamento penitenziario posto in essere dall’amministrazione sia riconducibile nella categoria dei servizi pubblici. In quanto si tratta di un’attività materiale posta in essere dall’amministrazione penitenziaria, rivolta a favore della collettività, ed organizzata attraverso atti amministrativi che assumono la qualifica di atti generali, più raramente si pensi al caso del regolamento interno di istituto quella di atti normativi subsecondari. In particolari occasioni (si pensi all’istanza di trasferimento di un detenuto presso altra Istituto penitenziario), tra le quali non rientra quella in esame il rapporto tra amministrazione penitenziaria e detenuto può altresì orchestrarsi attraverso veri e propri provvedimenti amministrativi sottoposti in assenza di più analitica disciplina a quella generale contenuta nella l. 241/90. Il citato art. 33, riscritto dall’art. 7 comma 1, lett. a) l. n. 205/2000, a seguito di una prima declaratoria di incostituzionalità da parte di Corte cost. n. 292/2000 per eccesso di delega, è stato oggetto di una nuova e decisiva disamina da parte di Corte cost. n. 204/2004, che ne ha riscritto la portata, rintuzzando la diffusa utilizzazione da parte del legislatore ordinario del criterio di riparto per “blocchi di materie”, caldeggiato da Cons. St. ord. 1/2000, a scapito di quello costituzionalmente previsto, fondato sulla natura della posizione giuridica azionata. Con la pronuncia del 2004 la Consulta stigmatizza la scelta del legislatore di un’idea di giurisdizione esclusiva ancorata alla pura e semplice presenza, in un certo settore dell’ordinamento, di un rilevante pubblico interesse. Afferma al contrario il Giudice delle leggi come una corretta lettura dell’art. 113 cost. porta a ritenere che il legislatore può assegnare alla giurisdizione esclusiva del g.a. particolari materie, tali perché in assenza di simile previsione, “contemplerebbero pur sempre, in quanto vi opera la pubblica amministrazione-autorità, la giurisdizione generale di legittimità: con il che, da un lato, è escluso che la mera partecipazione della pubblica amministrazione al giudizio sia sufficiente perché si radichi la giurisdizione del giudice amministrativo (il quale davvero assumerebbe le sembianze di giudice “della” pubblica amministrazione: con violazione degli artt. 25 e 102, secondo comma, Cost.) e, dall’altro lato, è escluso che sia sufficiente il generico coinvolgimento di un pubblico interesse nella controversia perché questa possa essere devoluta al giudice amministrativo”.
Una situazione di tal fatta non si riscontra nei rapporti tra amministrazione e detenuto, dominati dalla presenza della giurisdizione principale del Tribunale e del Magistrato di Sorveglianza che appare il referente giurisdizionale in relazione agli istituti che concretamente incidono sulla misura e sulla qualità della pena. Al contrario, proprio la centralità che assume a livello sistemico il Magistrato di Sorveglianza consente di concludere per la sussistenza di una giurisdizione esclusiva di quest’ultimo su tutte le controversie aventi ad oggetto la violazione di diritti come potenziale conseguenza del regime di sottoposizione a restrizione della libertà personale, recata da atti dell’amministrazione ad esso preposta. Nello stesso senso milita la declaratoria di incostituzionalità della lett. e) del comma 2 dell’art. 33, in cui comunque era esplicitata, anche prima dell’intervento demolitorio del giudice delle leggi, l’esclusione dalla giurisdizione esclusiva del g.a. dei rapporti individuali di utenza. Nei rapporti tra amministrazione e detenuto, la prima non sempre agisce in veste di autorità e comunque quando anche adotta atti amministrativi che modificano le modalità concrete del trattamento o incidono sulla gestione ordinaria della vita del carcere, questi non sono mai espressione di discrezionalità amministrativa quante volte si riverberano direttamente o indirettamente sul trattamento penitenziario con esclusiva finalità rieducativa. La scelta discrezionale, infatti, viene normalmente intesa come individuazione di un comportamento lecito preceduta dalla ponderazione di un interesse pubblico primario con un interesse pubblico o privato secondario, al fine del soddisfacimento del primo con il minor pregiudizio del secondo. Ma nei rapporti tra amministrazione e detenuto teleologicamente orientati alla rieducazione del condannato, non vi è pluralità di interessi contrapposti o concomitanti, vi è un unico interesse alla rieducazione che solo deve animare i comportamenti o gli atti dell’amministrazione penitenziaria. Allo stesso modo non si apprezza la presenza di un merito amministrativo accostato agli atti dell’amministrazione che incidano sul trattamento penitenziario. Una buona amministrazione penitenziaria quale nucleo di un insindacabile potere discrezionale rimesso all’amministrazione può essere presente in ragione di atti generali dell’amministrazione penitenziaria o di scelte quali quelle di edilizia penitenziaria che non si riverberano sul trattamento del singolo detenuto o ancora in presenza di un contrapposto interesse all’ordine ed alla sicurezza dell’Istituto. Ma non nel caso di atti che incidono per finalità rieducative sul trattamento, essendo gli stessi tutti rimessi al vaglio della giurisdizione di sorveglianza, che svolge un ruolo di garante assoluto del trattamento. Non va dimenticato sotto tale profilo che è competenza del Magistrato di Sorveglianza approvare la relazione di sintesi che reca il programma trattamentale del detenuto a riscontro dell’assenza di lesioni di posizioni giuridiche del detenuto e della presenza di valide indicazioni programmatiche. La discrezionalità che anima le scelte dell’amministrazione penitenziaria in questo campo ha natura di discrezionalità tecnica, ossia di valutazione di fatti resa alla stregua di canoni scientifici e tecnici, che non conosce un momento di ponderazione di interessi. Il giudizio di opportunità che caratterizza la cd. discrezionalità amministrativa pura è sostituito dal giudizio di opinabilità all’esito del quale l’amministrazione è chiamata a scegliere tra una pluralità di percorsi trattamentali possibili quello più adeguato per il detenuto. Pertanto, i diritti soggettivi correlati al trattamento che l’amministrazione deve soddisfare non sono riconducibili ad atti autoritativi dell’amministrazione penitenziaria. Ulteriori elementi a sostegno dell’assenza di giurisdizione da parte del g.a. possono desumersi in negativo dal mancato riferimento proprio all’interno del Codice del processo amministrativo di simili controversie, pur in presenza di una direttiva contenuta nella delega art. 44, comma 2, lett. b), punto 1), l. 69/2009, secondo la quale il legislatore delegato era vincolato a: “b) disciplinare le azioni e le funzioni del giudice:
1) riordinando le norme vigenti sulla giurisdizione del giudice amministrativo, anche rispetto alle altre giurisdizioni”. Un’analisi della struttura del citato art. 133 c.p.a. esclude che questa direttiva della delega non sia stata rispettata. Del resto la tendenziale esaustività delle ipotesi di giurisdizione esclusiva a favore del g.a. descritta dall’art. 133, c.p.a. si desume dalla stessa clausola di salvaguardia nell’incipit della norma: “salvo ulteriori previsioni di legge”, che nella materia in esame non si rinvengono. Si può giungere ad una prima parziale quanto decisiva osservazione quindi nel senso che la fattispecie non rientra tra le materie attribuite alla giurisdizione esclusiva del g.a.
2.1.1. Un’ultima notazione va fatta prima di lasciare il tema della competizione giurisdizionale tra giurisdizione del g.a. e del Magistrato di Sorveglianza. Infatti, prima dell’entrata in vigore del c.p.a., nella vigenza quindi dell’art. 7, l. TAR come modificato dalla l. 205/2000, si sarebbe posto il problema della eventuale riconducibilità dell’azione risarcitoria autonoma dinanzi al g.o. ovvero al g.a. La presente lite che è intervenuta all’indomani del 16 settembre 2010, può valersi con profitto della norma contenuta nel comma 4 dell’art. 7 secondo la quale: “Sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma”. Nella fattispecie, per quanto si dirà meglio infra, però, il detenuto non prospetta la presenza di un danno derivante dalla lesione di una posizione giuridica riconducibile alla nozione di interesse legittimo. Il che porta ad escludere anche sotto tale profilo che si possa delineare una giurisdizione risarcitoria di legittimità a favore del g.a. Questo perché come sopra ricordato il rapporto tra amministrazione penitenziaria e detenuto appare ispirato sempre dal fine rieducativo, ma a questo si accompagna in ragione della natura stessa del compito dell’amministrazione penitenziaria, anche un’attenzione particolare per la tutela dell’interesse pubblico alla sicurezza. Accade, pertanto, che l’amministrazione penitenziaria eserciti in alcune ipotesi una discrezionalità mista, in quanto espressione sia di discrezionalità tecnica per il peso assunto dalla vocazione trattamentale dei provvedimenti assunti sia di discrezionalità pura per la necessaria tutela dell’interesse pubblico alla sicurezza che l’amministrazione deve perseguire. Un tipico esempio di questo potere è quello di disporre trasferimenti (art. 42, l. n. 354/1975). In questo caso il detenuto vanta un interesse legittimo al corretto esercizio del potere amministrativo. Anche in queste fattispecie si radica la giurisdizione esclusiva del Magistrato di Sorveglianza alla luce delle conclusioni alle quali sono giunti due autorevoli precedenti quali Corte cost., 212/1997, e Cass., Sez. Un., 25079/2003. La prima delle citate pronunce ci accompagna sino alla posizione del problema quando afferma che: “Ora, poiché nell’ordinamento, secondo il principio di assolutezza, inviolabilità e universalità del diritto alla tutela giurisdizionale (artt. 24 e 113 Cost.), non v’è posizione giuridica tutelata di diritto sostanziale, senza che vi sia un giudice davanti al quale essa possa essere fatta valere, è inevitabile riconoscere carattere giurisdizionale al reclamo al magistrato di sorveglianza, che l’ordinamento appresta a tale scopo.
L’unica alternativa sarebbe, in astratto, quella di ritenere la materia rimessa al giudice amministrativo in sede di giurisdizione generale di legittimità. Ma, nella specie, ciò che il reclamante lamenta non è il cattivo esercizio di un potere discrezionale dell’amministrazione penitenziaria, bensì il mancato riconoscimento – in forza della lacuna normativa denunciata – di un diritto fondamentale, com’è il diritto inviolabile alla difesa, sub specie di diritto al colloquio con il proprio difensore”. La seconda opera un passo decisivo, quando afferma che: “Le precisazioni sopra esposte fanno ritenere che alla giurisdizione della magistratura di sorveglianza vada riferita la tutela pure degli interessi legittimi scaturenti da un atto dell’autorità amministrativa (sempre che tali posizioni soggettive possano trovare accesso nel regime del trattamento); secondo una cognizione che non può ridursi agli usuali canoni di demarcazione tra giurisdizione ordinaria e giurisdizione amministrativa, attesa la riserva di giurisdizione connaturata alla necessità del rispetto dell’art. 27, 3° comma, della Costituzione. Secondo quanto, del resto, risulta comprovato dall’intero assetto dei rimedi previsti dall’ordinamento penitenziario, pure a prescindere dalla tipologia di posizioni soggettive oggetto di tutela.”
2.2. Occorre a questo punto interrogarsi sulla possibilità che l’odierno giudicante non sia competente a trattare la richiesta risarcitoria proposta dallo Slimani. Una simile eventualità deve essere esclusa in omaggio a quanto affermato da Corte cost., n. 341/2006, che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, sesto comma, lettera a), della legge 26 luglio 1975, n. 374, non per la scelta di assegnare al Magistrato di Sorveglianza la cognizione delle controversie lavoristiche tra il detenuto e l’amministrazione penitenziaria fondata sulla ratio del rilievo assunto sul piano trattamentale del lavoro penitenziario, ma per la inadeguatezza dello strumento congegnato dal legislatore per assicurare piena tutela giurisdizionale alle correlate posizioni giuridiche del detenuto. Precisa la Consulta che: “Se si valuta la norma impugnata nella prospettiva delle suesposte garanzie costituzionali, si deve notare, in primo luogo, che la procedura camerale in essa prevista, tipica dei giudizi davanti al magistrato di sorveglianza, non assicura al detenuto una difesa nei suoi tratti essenziali equivalente a quella offerta dall’ordinamento a tutti i lavoratori, giacché è consentito un contraddittorio puramente cartolare, che esclude la diretta partecipazione del lavoratore-detenuto al processo. Per altro verso, la disposizione non assicura adeguata tutela al datore di lavoro, posto che all’amministrazione penitenziaria è consentita solo la presentazione di memorie, e che il terzo eventualmente interessato quale controparte del lavoratore (situazione che ricorre nel caso oggetto del giudizio principale) resta addirittura escluso dal contraddittorio, pur essendo destinato, in ogni caso, a rispondere, in via diretta o indiretta, della lesione dei diritti spettanti al detenuto lavoratore, se accertata da una decisione del magistrato di sorveglianza”. Ma più ancora dalla successiva Corte cost., n. 266/2009. Quest’ultima pronuncia veniva sollecitata dal Magistrato di Sorveglianza in ragione del manifesto disinteresse del legislatore per le indicazioni operate da Corte cost. 26/1999, ed all’indomani di Corte cost. 341/2006 che aveva ricondotto la giurisdizione sulle questioni lavoristiche del detenuto nella competenza del giudice del lavoro per l’ingiustificata disparità di trattamento tra le identiche situazioni del lavoratore e del detenuto lavoratore, essendo a quest’ultimo in modo ingiustificato assicurata una tutela giurisdizionale di rango inferiore. Quest’approdo non ha, però, condotto il giudice delle leggi a sottrarre la tutela dei diritti del detenuto al Magistrato di Sorveglianza, tanto che la questione rimessa dal Magistrato di Sorveglianza di Nuoro veniva dichiarata inammissibile. Al contrario, la Consulta richiamando la propria sentenza n. 212/1997, ha affermato che: “Come si vede, dunque, la sentenza de qua non incise affatto sulla competenza generale della magistratura di sorveglianza, ma si pronunciò con riguardo ad una ben precisa tipologia di reclami in materia di lavoro, ossia con riferimento a situazioni giuridiche per le quali nell’ordinamento generale è istituito un giudice specializzato. Pertanto, resta valido quanto già affermato da questa Corte con la citata sentenza n. 212 del 1997, per la quale l’ordinamento penitenziario, nel configurare l’organizzazione dei “giudici di sorveglianza” (magistrati e tribunale di sorveglianza) «ha dato vita ad un assetto chiaramente ispirato al criterio per cui la funzione di tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti è posta in capo a tali uffici della magistratura ordinaria»”. La Corte, il cui insegnamento verrà ripreso più avanti nel trattare delle questioni di carattere più strettamente procedurale, nel dichiarare l’inammissibilità delle questioni scrutinate, chiosa nei seguenti termini: “Il rimettente non ha motivato in modo sufficiente in ordine alle ragioni che gli impedirebbero di adottare una interpretazione costituzionalmente corretta della normativa de qua, così incorrendo in un ulteriore profilo di inammissibilità”. Quest’ultima indicazione suona come un invito alla Magistratura di Sorveglianza a “prendere sul serio i diritti dei detenuti” e pone in senso ultimativo, stante il preoccupante disinteresse del legislatore, un obbligo in capo al Magistrato di Sorveglianza ad analizzare il sistema in modo tale da verificare se effettivamente i crivelli processuali di cui dispone siano in grado di assicurare gli standard imposti dagli artt. 24, 111 e 113 cost. Si deve prendere atto di come le critiche rivolte al positivismo giuridico specie sul versante dei diritti fondamentali, sia pure nelle diverse declinazioni assunte negli ordinamenti giuridici occidentali, paiono aver abbandonato il piano meramente sostanziale per spostarsi su quello più tipicamente processuale, attraverso la facile, benché non immediata conclusione, da un lato che anche il diritto all’effettività della tutela giurisdizionale è un diritto fondamentale; dall’altro che questo diritto condiziona in termini di effettività la tutela di tutte le posizioni giuridiche. Basti pensare al riguardo come gli interventi a livello di Unione europea sul riavvicinamento dei sistemi processuali si sia tradotto in raramente in normative calate dall’alto (è il caso ad esempio della direttiva n. 665/89 in materia di appalti pubblici), quanto piuttosto nella difesa a tutta oltranza del principio di effettività della tutela giurisdizionale, nel senso che lo Stato membro non può introdurre meccanismi processuali che rendano eccessivamente difficoltoso l’accesso alla tutela giurisdizionale per le posizioni giuridiche di derivazione comunitaria. Sicché prima ancora di fare ricorso allo strumento del rinvio pregiudiziale, è la stessa Corte di Giustizia (Corte giustizia CE, grande sezione, 13/03/2007, n. 432) che segnala come: “Spetta ai giudici nazionali interpretare le condizioni procedurali interne in modo da garantire una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto comunitario”. In una situazione quale quella in esame, quindi, la via da seguire non può essere quella di limitarsi a prendere atto della presenza di un deficit strutturale di tutela, ma occorre cerare di tracciare una rotta a legislazione invariata che, valorizzando il ruolo dei principi generali, assicuri standard adeguati di tutela giurisdizionale ai diritti del detenuto, senza che in questo percorso considerazioni generali sul funzionamento e sugli equilibri della società possano paralizzare una simile riflessione sino a giungere al risultato concreto di una denegata giustizia. Prima di concludere però nel senso che non può pertanto seriamente dubitarsi che la vicenda in esame non rientri nella competenza del giudice civile occorre sciogliere un ultimo nodo, quello relativo alla possibilità per il Magistrato di Sorveglianza di condannare l’amministrazione al risarcimento del danno. Se, infatti, vi è copiosa giurisprudenza sia di merito che di legittimità che ha concluso positivamente in merito alla possibilità che il Magistrato di Sorveglianza assicuri una tutela in forma specifica dei diritti del detenuto, non si ravvisano precedenti in ordine alla possibilità che l’odierno giudicante possa utilizzare strumenti risarcitori per equivalente. La questione in termini più netti passa per la possibilità che il Magistrato di Sorveglianza possa risarcire il danno non patrimoniale sofferto dal detenuto e cagionato dall’amministrazione penitenziaria.
2.2.1. La risposta ad un simile quesito deve essere preceduta da un’analisi dei rapporti tra giurisdizione e processo negli ultimi anni, giacché le necessarie qualità che devono accompagnare quest’ultimo finiscono per condizionare inevitabilmente anche la conformazione della prima. Il rapporto di strumentalità che deve avvincere il soddisfacimento della posizione giuridica attraverso l’intervento giurisdizionale era già acquisito nel diritto vivente della Corte costituzionale prima della modifica dell’art. 111 cost. Cosi Corte cost., 220/1986, riteneva che: “Il giusto processo…vien celebrato non già per sfociare in pronunce procedurali che non coinvolgono i rapporti sostanziali delle parti che vi partecipano – siano esse attori o convenuti – ma per rendere pronuncia di merito rescrivendo chi ha ragione e chi ha torto: il processo…deve avere per oggetto la verifica della sussistenza dell’azione in senso sostanziale di chiovendiana memoria, né deve, nei limiti del possibile, esaurirsi nella discettazione sui presupposti processuali, e per evitare che ciò si verifichi si deve adoperare il giudice”. Quest’impostazione viene ulteriormente confermata dal legislatore costituzionale nel 1999, tanto che la stessa Corte investita della questione della cd. translatio judicii con la sentenza n. 77/2007, si esprimeva in questi termini: “Se è vero, infatti, che la Carta costituzionale ha recepito, quanto alla pluralità dei giudici, la situazione all’epoca esistente, è anche vero che la medesima Carta ha, fin dalle origini, assegnato con l’art. 24 (ribadendolo con l’art. 111) all’intero sistema giurisdizionale la funzione di assicurare la tutela, attraverso il giudizio, dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi.
Questa essendo la essenziale ragion d’essere dei giudici, ordinari e speciali, la loro pluralità non può risolversi in una minore effettività, o addirittura in una vanificazione della tutela giurisdizionale: ciò che indubbiamente avviene quando la disciplina dei loro rapporti – per giunta innervantesi su un riparto delle loro competenze complesso ed articolato – è tale per cui l’erronea individuazione del giudice munito di giurisdizione (o l’errore del giudice in tema di giurisdizione) può risolversi in un pregiudizio irreparabile della possibilità stessa di un esame nel merito della domanda di tutela giurisdizionale.
Una disciplina siffatta, in quanto potenzialmente lesiva del diritto alla tutela giurisdizionale e comunque tale da incidere sulla sua effettività, è incompatibile con un principio fondamentale dell’ordinamento, il quale riconosce bensì la esistenza di una pluralità di giudici, ma la riconosce affinché venga assicurata, sulla base di distinte competenze, una più adeguata risposta alla domanda di giustizia, e non già affinché sia compromessa la possibilità stessa che a tale domanda venga data risposta.
Al principio per cui le disposizioni processuali non sono fine a se stesse, ma funzionali alla miglior qualità della decisione di merito”. Simili importanti riflessioni sulla possibile concorrenza di più organi giurisdizionali potenzialmente competenti sulla stessa controversia ci porta a dire con autorevole dottrina che solo quando il processo è giusto ed è regolato dalla legge si ha autentica attuazione della giurisdizione. Ma ciò impone che il processo si svolga dinanzi al giudice naturale, rispetto al quale il cittadino abbia facilità di accesso. Il rapporto tra colui che chiede tutela ed il giudice chiamato ad amministrarla deve essere visto necessariamente dalla parte del primo, ciò in quanto l’unica effettiva ragione che sorregge la presenza di una pluralità di giudici riposa su quella specializzazione che si traduce in maggiori conoscenze utili per assicurare giustizia. È la finalità di assicurare una migliore risposta giurisdizionale ai diritti del detenuto che pervade il complesso di norme rappresentato dagli artt. 35 e 69 sul quale poggia la giurisdizione del Magistrato di Sorveglianza. Né in questo senso appare convincente una ricostruzione secondo la quale il Magistrato di Sorveglianza dovrebbe limitarsi ad accertare la lesione del diritto del detenuto, assicurandone eventualmente una tutela in forma diretta, salva la possibilità per il detenuto stesso di rivolgersi al giudice civile per ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito dell’accertata lesione. Una simile ricostruzione rievoca i tormentati rapporti che hanno interessato a livello di riparto di giurisdizione la questione relativa al risarcimento del danno da lesione di interesse legittimo. Le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 191/2006, circa l’esigenza in attuazione dei precetti contenuti negli artt. 24 e 111 cost. di assicurare la concentrazione delle forme di tutela giurisdizionale dinanzi ad un unico giudice, confortano l’idea che il Magistrato di Sorveglianza possa assicurare una tutela anche risarcitoria dei diritti del detenuto. L’importanza della concentrazione delle forme di tutela e della possibilità che questo principio venga a sagomare direttamente i rapporti tra giudici diversi emerge con tutta la sua forza nel recente arresto delle Sezioni Unite della Cassazione, ordinanza, 25 febbraio 2011, n. 4615, secondo la quale: “Rientra nella giurisdizione esclusiva del G.A. una domanda subordinata relativa all’indennità di occupazione legittima, quante volte il diritto che ne costituisca l’oggetto sia alternativo alla tutela chiesta in via principale rientrante nella giurisdizione del giudice amministrativo e le domande siano proposte sulla base dei medesimi fatti, dipendendo l’accoglimento dell’una o dell’altra da un accertamento avente carattere prioritario di competenza del giudice amministrativo. Ciò in applicazione del principio di concentrazione delle tutele, ai fini di economia processuale e della ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.)”.
2.2.1.1. Del resto una diversa conclusione esporrebbe, da un lato, il detenuto al rischio di dover instaurare due diversi giudizi con vulnerazione del principio di ragionevole durata del processo nel caso in cui si ritenga che l’accertamento della lesione della posizione giuridica in questione non possa essere operata in via incidentale sotto forma di verifica della presenza di un danno non jure e contra jus del giudice civile. Ovvero diversamente opinando esporrebbe il sistema al rischio di giudicati contraddittori ben potendo il Magistrato di Sorveglianza ritenere insussistente la lesione del diritto del detenuto e per lo stesso motivo, invece, il giudice civile concludere per il risarcimento del danno della stessa posizione giuridica. Tali nefaste possibilità vengono escluse dalla previsione di una giurisdizione esclusiva piena del Magistrato di Sorveglianza. Del resto in termini di esame strettamente sistematico, appare evidente che: 1) l’indicazione generica contenuta nell’art. 35 l. 354/1975, non determina in senso tassativo il contenuto del reclamo, portando a ritenere che ne siano esclusi i reclami risarcitori; 2) non si registra una previsione di esclusiva assegnazione delle controversie risarcitorie al giudice civile; 3) quanto all’assenza di norme che disciplinino l’azione risarcitoria del Magistrato di Sorveglianza va rilevato che allo stesso modo non esistono norme che disciplinino il giudizio risarcitorio dinanzi al giudice civile; 4) le norme sul risarcimento del danno sono contenute, come noto, nel Libro IV del codice civile, che è patrimonio giuridico delle relazioni sostanziali al quale ben può attingere anche il Magistrato di Sorveglianza; 5) non sussistono quelle preoccupazioni esternate da Corte cost., n. 341/2006, perché non vi è disparita di trattamento tra la persona detenuta danneggiato dall’amministrazione e la persona non detenuta danneggiata dall’amministrazione, atteso che si è in presenza di situazioni diverse. Circostanza quest’ultima anche esclude il rischio di applicazione difforme da parte di giudici distinte delle stese disposizioni alla quale peraltro può giungere in soccorso il ruolo nomofilattico della Suprema Corte. Inoltre, l’eventuale minore adeguatezza del sistema giurisdizionale governato dal Magistrato di Sorveglianza, peraltro tutta da dimostrare come si vedrà infra (basti pensare che il presente giudizio si è concluso entro un anno dalla sua proposizione nel pieno rispetto dei principi costituzionali), nelle liti tra amministrazione e detenuto rispetto alle altre, trova una sua giustificazione nella maggiore facilità di accesso, anche in termini di costi, del detenuto al giudizio dinanzi al Magistrato di Sorveglianza, nonché nella maggiore specializzazione assicurata da quest’ultimo; 6) l’importanza del ruolo da riconoscere ad una figura che presenta le caratteristiche tipiche del Magistrato di Sorveglianza, è stata riconosciuta di recente dalla stessa Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza sez. IV, 22/10/2009, n. 17885, Orchowski – Sikorski c. Polonia: “The Court would in any event, observe that a ruling of a civil court cannot have any impact on general prison conditions because it cannot address the root cause of the problem. For that reason, the Court would encourage the State to develop an efficient system of complaints to the authorities supervising detention facilities, in particular a penitentiary judge and the administration of these facilities which would be able to react more speedily than courts and to order, when necessary, a detainee’s long-term transfer to Convention compatible conditions”. Ruolo che viene ad essere ulteriormente valorizzato laddove si ritenga che il Magistrato di Sorveglianza possa non limitarsi a rimuovere la lesione in atto, ma anche a ristorare i danni per le lesioni patite, risultando così dotato di reali poteri di enforcement sull’amministrazione penitenziaria a tutela del detenuto; 7) una vicenda dai contorni analoghi è stata vissuta nel recente passato nel nostro ordinamento sul tema della possibilità per il giudice amministrativo di risarcire il danno da lesione di interesse legittimo. Nonostante si tratti in quel caso del conflitto tra due distinti plessi giurisdizionali, appare importante rammentare come la stessa Corte n. 191/2006, ha affermato che: “L’attribuzione alla giurisdizione del giudice amministrativo della tutela risarcitoria – non a caso con la medesima ampiezza, e cioè sia per equivalente sia in forma specifica, che davanti al giudice ordinario, e con la previsione di mezzi istruttori, in primis la consulenza tecnica, schiettamente “civilistici” (art. 35, comma 3) – si fonda sull’esigenza, coerente con i principi costituzionali di cui agli artt. 24 e 111 Cost., di concentrare davanti ad un unico giudice l’intera tutela del cittadino avverso le modalità di esercizio della funzione pubblica…”. In definitiva, il ruolo rivendicato al Magistrato di Sorveglianza dalla presente pronuncia appare come uno dei tanti esempi di crisi della legge nazionale dinanzi all’esplosione ed all’internazionalizzazione delle fonti del diritto e come conseguente crisi della sua capacità di assicurare certezza dinanzi ad istanze di giustizia che, se il legislatore nazionale può trascurare di prendere in esame, non possono essere ignorate dal singolo giudice, chiamato a riannodare tra regole e principi una disciplina processuale e sostanziale che offra risposta al caso concreto, prestando omaggio alle indicazioni provenienti dalle Supreme Corti nazionali ed internazionali. La complessità del panorama giuridico deve trovare una sintesi nella pronuncia giurisdizionale in modo da risolvere la res controversa secondo quelle regole giuridiche che il legislatore nazionale concorre a determinare, ma delle quali non è più il solo artefice. Regole che possono anche fondare su mutati orientamenti degli organi giudicanti in presenza dei quali il bilanciamento tra prevedibilità della decisione ed esigenza di assicurare la giustizia del caso concreto poggia anche su di un adattamento delle regole processuali onde assicurare un contraddittorio ancora più esteso a tutela dell’affidamento ingenerato dalla presenza di un orientamento costante (Cass. 11.7.2011, n. 15144), anche ove questo si esprima nell’assenza di pronunce in materia, che facciano apparire alcune come controversie con non giustiziabili.
2.3. Acclarata la presenza della giurisdizione dell’odierno giudicante nella fattispecie che ci occupa, è necessario passare alla verifica della capacità del processo dinanzi al Magistrato di Sorveglianza di rispettare i canoni dell’art. 111 cost. Giacché è proprio nel rispetto dei primi due commi di quest’articolo ed in particolare nel rispetto della tutela del contraddittorio che risiede la legittimazione del giudice. Qualora non fosse possibile ricostruire un architettura processuale idonea a rispettare i precetti consacrati nella citata norma costituzionale, il risultato non potrebbe che essere quello perseguito con l’ordinanza di remissione alla quale ha fornito una prima risposta Corte cost. 266/2009. La formula del giusto processo racchiusa nell’art. 111 cost., che riecheggia il fair and pubblic trial dell’art. 6 CEDU rappresenta, quindi, la stella polare alla luce della quale testare la capacità delle regole seguite nel presente procedimento per giungere all’emanazione della presente ordinanza. Il giusto processo si caratterizza: 1) per essere regolato dalla legge; 2) per svolgersi nel contraddittorio delle parti in posizione di parità; 3) per svolgersi dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale; 4) per avere forme tali da assicurarne la ragionevole durata; 5) per potersi svolgere su richiesta dell’interessato in pubblica udienza. Il rispetto della quinta condizione non appare scontato e verrà esaminato per ultimo, poiché dalla soluzione della questione dipende dalla soluzione della questione più ampia dei rapporti tra il nostro ordinamento e le norme della CEDU.
2.3.1. Quanto alla prima condizione (riserva di legge statale), la stessa si apprezza secondo due distinte accezioni entrambe operanti: una positiva ed una negativa. La prima impone al legislatore di attivarsi, assicurandogli una riserva di legge (statale, art. 117 cost.) assoluta, non potendo il processo essere regolato da fonti subordinate alla legge se non in chiave meramente esecutive. La seconda vale, invece, quale limite negativo per il giudice. Quest’ultimo, infatti, non potrà creare in via pretoria forme e termini di carattere processuale, essendo tenuto ad operare entro il recinto delle regole fissate dal legislatore, che pure dovrà interpretare in modo costituzionalmente orientato. Nella presente controversia il rito seguito è stato quello definito dagli artt. 14-ter, 35 e 69 l. 354/1975, in omaggio all’interpretazione costituzionalmente offerta dalle Sezioni unite penali, con sentenza del 26 febbraio 2003, n. 25079, e ribadita da ultimo nell’ordinanza n. 266/2009 del Giudice delle leggi. Sicché ci si è mossi in un quadro di disposizioni previste dal legislatore.
2.3.2. Quanto alla seconda condizione (tutela del contraddittorio tra le parti in posizioni di parità), siamo dinanzi ad un punto particolarmente delicato giacché l’esame degli articoli sopra citati della l. 354/1975, induce la giurisprudenza in modo conforme a ritenere che l’amministrazione non possa intervenire tramite un suo rappresentante personalmente in udienza, ma abbia solo facoltà di presentare memorie. Prima di constatare in concreto la presenza di un profilo di insostenibile distanza tra il precetto costituzionale e la disciplina del rito seguito, va però precisato che la stessa Corte costituzionale (9 aprile 2009, n. 108) ha affermato che: “il principio di parità tra le parti nel processo non comporta necessariamente l’identità dei rispettivi poteri processuali: «stanti le differenze fisiologiche fra le due parti, dissimmetrie sono, così, ammissibili anche con riferimento alla disciplina delle impugnazioni, ma debbono trovare adeguata giustificazione ed essere contenute nei limiti della ragionevolezza» (sentenza n. 26 del 2007). Simili limitazioni – è stato ribadito – per essere rispettose dei princìpi di parità delle parti, eguaglianza e ragionevolezza e del diritto di difesa, devono essere sorrette da una razionale giustificazione (sentenza n. 85 del 2008)”. Una asimmetria di tal fatta può essere giustificata dalla differente posizione di supremazia sostanziale assunta dall’amministrazione penitenziaria nei confronti del detenuto, che si riequilibra in sede processuale. Senza dire che il Magistrato in sede istruttoria ben avrà la possibilità di ascoltare membri dell’amministrazione penitenziaria assumendone a verbale le dichiarazioni. Un ulteriore ragione di tensione tra le regole seguite ed il principio di effettività del contraddittorio è rappresenta dall’esegesi secondo la quale l’amministrazione non solo non potrebbe intervenire in udienza, ma sarebbe sprovvista durante il processo anche di difesa tecnica. Dinanzi a questa interpretazione che rischia di porre il procedimento giurisdizionale in chiaro contrasto con l’art. 111 cost., la Consulta (ord. 266/2009) ha offerto un prezioso suggerimento, sebbene con modalità dubitative: “…è rimasta non esplorata la possibilità che le posizioni di detta amministrazione siano rappresentate per l’appunto dal pubblico ministero nel contraddittorio col difensore del reclamante”. La possibilità che il pubblico ministero svolga il ruolo di difensore delle ragioni dell’amministrazione non appare, però, realmente praticabile in ragione del ruolo che l’ordinamento gli riconosce. Infatti, benché il pubblico ministero sia in alcune ipotesi deputato ad adottare atti aventi natura amministrativa sia pure in limine rispetto all’attività giurisdizionale: è il caso ad esempio dell’ordine di esecuzione, si tratta sempre di un’attività priva di discrezionalità, che viene eseguita quale diretta attuazione del precetto legislativo ed in altri ricopra ruoli di impulso o di contraddittorio a tutela di interessi pubblici (si pensi al ruolo del pubblico ministero nei procedimenti sulla capacità delle persone fisiche), siamo sempre in presenza di ipotesi nelle quali non risulta portatore di interessi di parte, ma piuttosto svolge il ruolo di osservatore del rispetto delle norme di legge attraverso l’esercizio di un potere neutrale. Pertanto, la natura del ruolo da assegnargli in questa sede appare più simile a quello di tutore della corretta esecuzione della pena detentiva nel rispetto dei diritti del detenuto, quasi in veste di amicus curiae, piuttosto che di difensore delle ragioni dell’amministrazione penitenziaria. Persuasi da quest’impostazione viene fortemente in rilievo la possibilità che il presente giudizio offra il fianco ad una censura di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 111 cost. Sennonché una simile eventualità può essere superata attraverso una lettura costituzionalmente orientata proprio dell’art. 14-ter, l. 354/1975, laddove dispone al comma 3, che: “Il procedimento si svolge con la partecipazione del difensore…” La lettera della norma, infatti, non precisa che la locuzione utilizzata faccia riferimento in via esclusiva al difensore del detenuto, riferendosi in modo generico al “difensore”. Deve, pertanto, ritenersi che per “difensore” debba intendersi il difensore delle parti, ivi inclusa l’amministrazione penitenziaria, rappresentata nella fattispecie dal Ministro della Giustizia, che ai sensi degli artt. 1 e 11, comma 2, r.d. n. 1611/1933, è difeso dall’Avvocatura distrettuale di Lecce, che nel presente giudizio si è, infatti, costituita, accettando il contraddittorio e difendendo le ragioni dell’amministrazione. È appena il caso di rammentare che l’art. 1, r.d. n. 1611/1933, prevede che: “1. La rappresentanza, il patrocinio e l’assistenza in giudizio delle Amministrazioni dello Stato, anche se organizzate ad ordinamento autonomo, spettano alla Avvocatura dello Stato.
2. Gli avvocati dello Stato, esercitano le loro funzioni innanzi a tutte le giurisdizioni ed in qualunque sede e non hanno bisogno di mandato, neppure nei casi nei quali le norme ordinarie richiedono il mandato speciale, bastando che consti della loro qualità”. Mentre l’art. 11, comma 2, stabilisce che: “Ogni altro atto giudiziale e le sentenze devono essere notificati presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto ha sede l’Autorità giudiziaria presso cui pende la causa o che ha pronunciato la sentenza”. In questo modo viene pienamente garantito il diritto al contraddittorio dell’amministrazione penitenziaria.
2.3.3. In merito alla terza condizione (garanzia di un giudice terzo ed imparziale) si tratta di una questione che non può essere valutata in astratto, ma solo in concreto. Il nostro ordinamento conosce e disciplina anche a livello costituzionale organi giurisdizionali quali il Consiglio di Stato (art. 100, comma 1, cost.), che hanno veste amministrativa e giurisdizionale. Si tratta di un’eventualità legata alla trasformazione del principio di rigida separazione dei poteri, che porta a rinvenire in alcuni organi funzioni proprie vuoi dell’amministrazione vuoi della giurisdizione, senza che ciò evidenzi profili di incostituzionalità. Ciò non toglie che laddove l’esercizio preventivo di una funzione amministrativa possa evidenziare la presenza di un pregiudizio da parte del giudice che potrebbe non apparire come terzo ed imparziale allora scatteranno i rimedi tipizzati dal legislatore dell’astensione e della ricusazione. Nello stesso senso oltre ad essersi pronunciata l’ordinanza 266/2009 della Corte costituzionale, è anche la posizione della Corte europea, che ha scrutinato la questione in relazione a quella di più frequente verificazione di giudici amministrativi che svolgano anche funzioni di natura amministrativa. La soluzione offerta dai giudici di Strasburgo nelle pronunce Procola v. Luxemburg del 28 settembre 1995 e McGonnell v. United Kingdom dell’8 febbraio 2000 è nel senso che il rispetto dei precetti della CEDU non passa attraverso l’imposizione allo Stato di una determinata architettura istituzionale che neghi in radice la possibilità di convergenza in capo allo stesso organo di competenze amministrative e giurisdizionali, quanto nell’evitare che il giudice si sia occupato sotto distinte vesti della “medesima questione”. Pertanto, in costanza di funzioni sufficientemente definite in capo al Magistrato di Sorveglianza chiamato ad intervenire sia con atti aventi natura amministrativa e giurisdizionale, il rispetto del principio di imparzialità passa attraverso la verifica concreta che non si sia occupato della “medesima questione” evenienza che nella fattispecie non ricorre.
2.3.4. Quanto alla quarta condizione (rispetto del principio di ragionevole durata del processo), la configurazione estremamente snella del procedimento dinanzi al Magistrato di Sorveglianza consente la definizione dello stesso in tempi assolutamente ragionevoli (nella fattispecie meno di un anno). La previsione che vuole il decreto di citazione venga notificato alle parti appena 10 dieci giorni liberi prima dell’udienza e che il deposito dell’ordinanza segua nei cinque giorni successivi all’udienza, benché quest’ultimo abbia natura di termine ordinatorio, rappresentano crivelli processuali in grado di garantire la definizione del giudizio in tempo rapidi. Inoltre, l’intero giudizio in termini di velocità di formazione del giudicato fruisce dell’assenza di un grado d’appello di merito atteso che ai sensi dell’art. 71-ter, avverso la presente ordinanza è possibile soltanto interporre ricorso per Cassazione. Eventualità questa che non appare lesiva di precetti costituzionali atteso che nella giurisdizione del g.o. non è costituzionalizzato il doppio grado di giudizio, come dimostrato dalle ipotesi nelle quali la Corte d’appello interviene quale unico giudice di merito, ad esempio in tema di determinazione dell’indennità d’esproprio.
2.3.5. L’ultima condizione: la facoltà dell’interessato di ottenere un’udienza pubblica, sembrerebbe non rispettata tanto da poter porre a rischio la compatibilità costituzionale del presente giudizio in via indiretta in ragione della mancata osservanza del diritto ad una pubblica udienza contenuto nell’art. 6 CEDU. È pacifica, infatti, la natura camerale del rito utilizzato. Una riflessione al riguardo deve necessariamente partire dagli approdi di Corte cost. 12 marzo 2010, n. 93, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimi, per violazione dell’art. 117, comma 1, cost. in relazione all’art. 6, § 1, Cedu, l’art. 4 della l. 27 dicembre 1956 n. 1423 e l’art. 2 ter della l. 31 maggio 1965 n. 575, nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica. La Consulta, richiamando la giurisprudenza della Corte di Strasburgo (Bocellari e Rizza c/Italia 2007; Perre c/Italia 2008), ha precisato che resta fermo il potere del giudice di disporre che si proceda in tutto o in parte senza la presenza del pubblico in rapporto a particolarità del caso concreto, che facciano emergere esigenze di tutela di valori contrapposti, nei limiti in cui, a norma dell’art. 472 c.p.p., è legittimato lo svolgimento del dibattimento penale a porte chiuse. Rinviando più avanti per gli approfondimenti inerenti i rapporti tra ordinamento nazionale e ordinamento appare opportuno rammentare come la questione in passato sia stata affrontata dal giudice di legittimità (Cass. pen., sez. I, 26 febbraio 2008, n. 14010), che aveva escluso l’estensione della giurisprudenza di Strasburgo al procedimento ex art. 41-bis, ritenendo necessario passare attraverso la declaratoria di incostituzionalità per violazione dell’art. 117 cost. in omaggio alle indicazioni offerte da Corte cost. 348 e 349/2007. Secondo il ragionamento offerto dalla Consulta e ripreso dalla Cassazione, la CEDU è norma interposta, sicché in caso di contrasto tra norma interna e CEDU opera un controllo centralizzato della Consulta per violazione dell’art. 117 cost. anche in applicazione della teoria dei controlimiti. Prima di sollevare la questione il giudice a quo deve, però, tentare un’interpretazione adeguatrice della normativa nazionale in ragione di una lettura estensiva dell’art. 46 CEDU in ordine all’efficacia vincolante delle sentenze della Corte di Strasburgo non solo per il legislatore nazionale ma anche per la giurisdizione nazionale. Come appare evidente la soluzione in merito alla presenza di un diritto del condannato di ottenere un’udienza pubblica passa attraverso i rapporti tra ordinamento interno e CEDU. Pertanto, è bene riprendere le soluzioni alternative a quella offerta dal giudice delle leggi attraverso le quali sono stati declinati i rapporto tra l’ordinamento nazionale e la Convenzione europea. Secondo una prima tesi la CEDU è stata comunitarizzata ai sensi dell’art. 6 Trattato sull’Unione europea nella versione consolidata all’indomani del Trattato di Lisbona del 2007 par. 2 e 3: “2. L’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Tale adesione non modifica le competenze dell’Unione definite nei trattati. 3. I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali”. Da ciò deriva che la norma nazionale può essere disapplicata ex art. 11 cost. salvo il ricorso pregiudiziale alla Corte di Giustizia. Questa è la tesi sposata in giurisprudenza, da ultimo, da TAR Lazio, Roma, sez. II-bis, 18/05/2010, n. 11984; Cons. St., sez. IV, 2 marzo 2010, n. 1220. Per una seconda tesi di derivazione dottrinale le norme CEDU spiegano efficacia diretta nell’ordinamento nazionale se corrispondono alle norme della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000 di Nizza e se si versa in una materia di competenza dell’Unione. Nel caso, invece, in cui non si versa in una materia di competenza dell’Unione occorrerà seguire la via della remissione alla Consulta. Adottando questa soluzione che pare quella preferibile nel nostro caso sembra necessario giungere ad una soluzione positiva atteso che l’art. 47 della Carta di Nizza prevede espressamente il diritto ad un processo pubblico. Pertanto, il precetto in questione ha diretta efficacia nell’ordinamento nazionale. Sicché anche sotto questo profilo il rito seguito appare pienamente compatibile con le direttrici fondamentali nazionali e sovranazionali, grazie alla possibilità di indicare nel decreto di citazione il diritto del detenuto ad ottenere un’udienza pubblica.
3. Prima di affrontare il merito della vicenda è necessario chiarire quale sia l’influenza delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo sull’ordinamento interno alla luce del dettato dell’art. 46 CEDU, che in una lettura evolutiva sembra far assumere portata vincolante alle pronunce della Corte europea non solo per gli Stati ma anche per le giurisdizioni nazionali. Il reclamante, infatti, nell’articolare le sue ragioni invoca esplicitamente la già richiamata sentenza Sulejmanovic ed afferma l’avvenuta lesione dei diritti scolpiti nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che secondo i giudici di Strasburgo rappresentano: “constitutional instrument of European public order for the protection of individual human beings” (Corte europea dei diritti dell’uomo, 12 dicembre 2001, Bankovi c´, ric. n. 52207/99). La delicatezza del tema discende dalla parziale sovrapposizione dei diritti fondamentali protetti dalla Carta costituzionale e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che ha come effetto quello di ottenere pronunce sullo stesso tema da parte di organi giurisdizionali differenti, con l’ovvia difficoltà di individuare in caso di divergenti interpretazioni quella vincolante per il giudice nazionale. Il contrasto può raggiungere vette estreme come testimoniato dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sez. II) sui ricorsi Agrati e altri c. Italia (n. 43549/08, 6107/09 e 5087/09) che confligge apertamente con il dictum di Corte cost. n. 311/2009. Attualmente il punto di equilibrio raggiunto nel dialogo tra le Corti ruota attorno al ruolo riconosciuto dalla Corte di Strasburgo agli organi giurisdizionali nazionali. A quest’ultimi la Corte assegna il compito nel verificare la lesione dei diritti della Convenzione secondo il diritto vivente creato dalla stessa Corte di Strasburgo di utilizzare un “margine di apprezzamento” nell’applicare il diritto del singolo tenendo conto dell’interesse della collettività. Mentre la Corte costituzionale italiana ritiene che il primato degli obblighi internazionali nel sistema interno non sia assoluto ma incontri comunque l’esigenza del rispetto del sistema di valori interni, tanto che la Consulta si riserva il potere di verificare se le norme CEDU risultano conformi alle garanzie costituzionali. Solo qualora superi tale controllo, la norma internazionale può integrare il parametro di legittimità costituzionale (Corte cost. 348/2007). Nella fattispecie, però, la presenza di un divieto analogo contenuto nell’art. 3 CEDU e nell’art. 27 comma 3 cost. quanto ai trattamenti inumani ed il divieto di tortura, che si impone come vedremo infra anche alla luce dello jus cogens su di un terreno giuridico superiore persino alla nostra Carta fondamentale, non comporta alcun rischio di contrasti, tanto che le pronunce della CEDU come quelle della Consulta debbono essere utilizzate dal giudizio nazionale al fine di ispirare la propria decisione. Sotto questo profilo appare, pertanto, necessario analizzare la giurisprudenza della Corte europea sulla violazione dell’art. 3 CEDU, secondo il quale: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
3.1. Il reclamante si duole in generale della lesione della dignità dell’uomo tutelata dalla nostra Carta costituzionale e dalle convenzioni internazionali sui diritti umani ed in particolare di un’aggressione talmente intensa a quest’ultima tale da manifestarsi sotto forma della violazione del divieto di tortura o di sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti già vietata dall’art. 3 CEDU, ma anche dall’art. 27, comma 3, cost.. Il richiamo a posizioni giuridiche di derivazione nazionale e sovranazionale impone una chiarificazione in merito al diverso peso assunto dalle stesse nel presente giudizio ed all’apprezzamento che delle stesse è stato fatto nell’ambito delle rispettive giurisdizioni. In termini generali possiamo dire che nel confronto tra le posizioni giuridiche individuate dalla CEDU e quella tutelate dalla Costituzione italiano, la dignità umana assume almeno prima facie un ruolo diverso. Infatti, mentre nella Convenzione europea manca un richiamo esplicito alla dignità dell’uomo, la nostra Grundnorm la innalza all’art. 2, quale elemento fondamentale dell’intero ordinamento giuridico. Questa distanza che potrebbe apparire come realmente significativa viene però a ridursi già sul pino dei richiami formali se si pone mente al richiamo contenuto nel preambolo della CEDU alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo che pone la dignità umana al centro del sistema ed alla formula utilizzata nel preambolo del protocollo 13 della CEDU laddove gli Stati contraenti affermano che: “everyone’s right to life is a basic value in a democratic society and that abolition of the death penalty is essential for the protection of this right and for the full recognition of the inherent dignity of all human beings”. Accanto a questi richiami di tipo formale alla nozione di dignità umana si può rilevare dall’esame della giurisprudenza della Corte europea ed in particolare dalla prospettazione di violazioni agli artt. 2, 3, 4, 5, 6, 8, 10, 14 della CEDU, come la Corte di Strasburgo nella soluzione dei casi concreti operi abituali rinvii alla nozione di dignità umana. In questa sede un’attenzione particolare verrà posta alla disamina di quelle pronunce che si incentrano sulla violazione dell’art. 3 CEDU e quindi sulla lesione della dignità del detenuto. La dignità umana viene utilizzata quale parametro per verificare la presenza di un trattamento inumano o degradante a partire dalla seconda metà degli anni ’70. Nella sentenza del 25 aprile 1978 Tyrer/United Kingdom, la Corte europea chiarisce quando una pena assume le fattezze della tortura e del trattamento inumano e degradante precisando che: “…the applicant did non suffer any severe or long-lasting physical effects, his punishment – whereby he was treated as an object in the power of the authorities – constituted an assault on precisely that which it is one of the main purposes of Article 3 (art. 3) to protect, namely a person’s dignity and physical integrity”. In questa prima pronuncia si individua chiaramente uno dei presupposti per ritenere integrata una lesione alla dignità dell’uomo nell’essere considerato: “an object in the power of the authorities”. In pronunce successive (11 marzo 2004, Yankov/Bulgaria) si equipara la lesione della dignità umana alla presenza di comportamenti tesi a far sorgere nell’interessato sentimenti di paura, angoscia, inferiorità in grado di umiliarlo. La presenza di un trattamento degradante (ill-treatment) implica sempre la presenza di una lesione della dignità umana. Una simile eventualità può essere generata anche dal sovraffollamento (overcrowding), problema comune a molti Stati occidentali non europei dinanzi al quale i Governi non sempre si sono mostrati in grado di trovare soluzioni in grado di governare il problema: emblematica è stata la risposta giudiziaria data l’8 aprile 2009 da una Corte federale degli Stati Uniti, che sollecitata a tanto da una class action ha ordinato al governatore della California, di ridurre di 40.000 unità entro due anni la popolazione carceraria dello Stato, portando il sistema penitenziario al 137,5% della sua capacità di progetto. Esistono numerose pronunce della Corte di Strasburgo nelle quali il rispetto della dignità umana del detenuto viene indicato quale elemento che deve essere rispettato per la positiva valutazione della gestione amministrative degli istituti di reclusione. Nella recente sentenza del 27 marzo 2008 (Sukhovoy/Russia) la Corte europea “…reiterates  that irrespective of the reasons for the overcrowding, it is incumbent on the respondent Governement to organise its penitentiariy system in such a way as to ensure respect for the dignity of detainees, regardless of financial or logistical difficulties”. In definitiva gli Stati aderenti alla Convenzione devono assicurare condizioni di detenzione che assicurino il rispetto della dignità umana: “the manner and the method of the execution of the measure do not subject him to distress or hardship o fan intensity exceeding the unavoidable level of suffering inherent in detention and thar, given the pratical demands of imprisonment, his health and well-being are adequately secured” (11 marzo 2004, Yankov/Bulgaria). In definitiva attraverso l’indagine sulla presenza di quei dati oggettivi attraverso i quali è possibile definire le nozione di tortura o trattamenti inumani o degradanti la Corte accerta la presenza di una lesione della dignità umana per operare una lettura estensiva del campo di applicazione del citato art. 3, che non si limita agli atti di tortura, o alle pene ma anche ai trattamenti sanitari e di polizia che incidono sulla libertà degli individui e che producono non solo sofferenze fisiche ma anche psichiche e morali. La lesione della dignità umana rappresenta l’esito certo della presenza di tortura, pene o trattamenti inumani o degradanti. È evidente quindi che l’invocata lesione della dignità umana e dell’art. 3 CEDU appare strettamente connessa nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, occorre pertanto verificare quali sono le condizioni che determinano a giudizio della Corte europea una simile eventualità.
3.2. E’ bene premettere che i giudici di Strasburgo operano un vaglio delle sole condizioni oggettive, ossia si limitano a verificare la mera presenza di tortura o trattamenti degradanti o inumani, senza che a tal fine rilevi un atteggiamento volontario del singolo Stato: “Premesso che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo obbliga gli Stati a garantire ai detenuti condizioni compatibili con il rispetto per la dignità umana e che le misure di reclusione applicate non debbano determinare sofferenze di intensità superiore al livello comunque inerente alla detenzione, la Corte rileva che nel caso di specie si sono determinate, a causa del sovraffollamento, delle sconcertanti condizioni materiali di detenzione non compatibili con un sufficiente spazio personale. Tali condizioni, seppure non determinate dall’intenzione di porre in essere comportamenti degradanti o umilianti, devono considerarsi, in associazione alla durata per la quale si sono protratte (quindi mesi), in contrasto con l’art. 3 Convenzione Cedu in quanto equiparabili a trattamenti degradanti” (Corte europea dir. uomo, sez. III, 15/06/2010, n. 35555, Ciupercescu/Romania). In altra pronuncia resa contro lo Stato italiano, « l’absence, dans le chef des autorités nationales, d’une volonté d’humilier ou de rabaisser l’intéressé n’exclut pas définitivement un constat de violation de l’article 3; cette disposition peut aussi bien être enfreinte par une inaction ou un manque de diligence de la part des autorités publiques » (17 settembre 2009, Scoppola/Italia). Si tratta di un approccio casistico nel quale l’indagine dei giudici di Strasburgo si serve però della verifica di una pluralità di elementi, che non si identifica unicamente con il sovraffollamento, la citata sentenza indica plasticamente queste condizioni: “101. La Cour réaffirme d’emblée que l’article 3 de la Convention consacre l’une des valeurs les plus fondamentales des sociétés démocratiques. Il prohibe en termes absolus la torture et les traitements ou peines inhumains ou dégradants, quels que soient les circonstances et les agissements de la victime (Labita c. Italie [GC] no 26772/95, § 119, CEDH 2000-IV), même dans les circonstances les plus difficiles, tels la lutte contre le terrorisme et le crime organisé (Ramirez Sanchez c. France [GC], no 59450/00, § 115, CEDH 2006 IX).
102. La Cour rappelle par ailleurs sa jurisprudence selon laquelle, pour tomber sous le coup de l’article 3, un mauvais traitement doit atteindre un minimum de gravité. L’appréciation de ce minimum est relative par essence ; elle dépend de l’ensemble des données de la cause, notamment de la durée du traitement et de ses effets physiques ou mentaux, ainsi que, parfois, du sexe, de l’âge, de l’état de santé de la victime, etc. (voir, parmi d’autres, Enea précité, § 55).” L’insieme di condizioni che rende il trattamento inumano e degradante è rappresentato dalla durata del trattamento, dai suoi effetti fisici e psichici in relazione al sesso, l’età, le condizioni di salute dell’interessato. Nelle stesse motivazioni della Corte si afferma che « les mesures privatives de liberté impliquent souvent un élément de souffrance ou d’humiliation », che non risulta di per se in grado di determinare una violazione dell’art. 3 CEDU. Pertanto, nella fattispecie la Corte individua una violazione dell’art. 3: “129. La Cour relève qu’à la prison de Bucarest-Jilava, le requérant a partagé avec dix-neuf autres détenus une cellule de neuf lits (paragraphe 38 ci-dessus). Ce fait n’a pas été contredit par le Gouvernement. Bien que la période pendant laquelle il est resté dans cette cellule ne soit pas précisée par les parties, la Cour déduit de ces données qu’au moins pendant un certain temps, le requérant a été confronté à une surpopulation carcérale grave. En effet, chacune des personnes détenues dans la cellule du requérant disposait d’un espace vital d’environ 0,75 m². La Cour note en outre que, même si le requérant n’était pas amené à partager son lit, l’espace prévu pour un détenu variait entre 1,50 et 1,57 m2, ce qui est bien en dessous de la norme recommandée dans le rapport du CPT (4 m²) dressé à l’issue de sa dernière visite dans les établissements pénitentiaires roumains, dont celui de Jilava. Par ailleurs, elle estime qu’il convient de prendre en compte le fait que cet espace était en réalité encore réduit du fait de la présence du mobilier qui rétrécissait les cellules (Viorel Burzo c. Roumanie, nos 75109/01 et 12639/02, § 98, 30 juin 2009 et Branduse c. Roumanie, no 6586/03, § 49, 7 avril 2009). L’intéressé était lui aussi confiné la majeure partie de la journée, ne bénéficiant d’une promenade dans la cour de la prison que pendant un temps très réduit chaque jour.
130. La Cour prend note également de ce qu’en raison du surpeuplement carcéral, le requérant, en détention provisoire, a été obligé de partager sa cellule avec des condamnés, ses conditions de détention contrevenant ainsi à la loi interne (paragraphes 20 et 22 ci-dessus). Or, comme l’a Cour l’a déjà fait remarquer, l’effet cumulatif du surpeuplement et du placement intentionnel d’une personne dans une cellule avec des détenus qui pourraient présenter un danger pour lui pourrait soulever un problème sous l’angle de l’article 3 de la Convention (Gorea c. Moldova, no 21984/05, § 47, 17 juillet 2007). Certes, en l’espèce, le requérant ne s’est pas plaint devant les juridictions nationales d’un comportement dangereux concret de la part des codétenus condamnés. Il n’en reste pas moins que, dans le contexte de l’affaire et surtout au vu du constat des juridictions nationales (a contrario Gorea précité, § 47 in fine), le fait d’être détenu avec des condamnés peut constituer une circonstance aggravante.” Appare chiaro, quindi, come non vi sia un’equivalenza tra sovraffollamento, ossia spazio minimo vitale a disposizione del detenuto e violazione dell’art. 3, ma che la stessa, pur emendata da qualsivoglia indagine su un atteggiamento doloso o colposo del singolo Stato, involge la valutazione di una pluralità di elementi. Una conferma di queste esegesi si  apprezza nella recente sentenza della Grande Camera del 21 febbraio 2011, sulle condizioni di detenzione e di esistenza di un richiedente asilo espulso, che conclude per l’esistenza di una violazione dell’art. 3, in quanto “Il ricorrente è stato detenuto in condizioni deplorevoli, ha subito maltrattamenti e insulti da parte dei poliziotti nel centro di detenzione, e ciò nonostante che tali condizioni siano già state considerate alla stregua di un trattamento degradante nei casi in cui vi sono sottoposti i richiedenti asilo. La detenzione, pur breve, non può essere considerata di durata irrilevante. La sensazione di aver subito un arbitrio, il sentimento d’inferiorità e di angoscia che vi sono spesso associati, la consapevolezza di essere violati nella propria dignità, sentimenti provocati da queste condizioni di detenzione, costituiscono un trattamento degradante. Inoltre, il danno subito dal ricorrente è stato accentuato dalla vulnerabilità inerente la sua qualità di richiedente asilo”. Ciò nonostante la presenza di uno spazio minimo vitale appare un dato di immediata rilevazione e può divenire elemento da solo sufficiente da far pervenire all’accertamento del mancato rispetto dell’art. 3, quando sia inferiore o uguale a 3 mq (Aleksandr Makarov c/Russia, n. 15217/07, § 93, 12 marzo 2009; si vedano anche Lind c/Russia, n. 25664/05, § 59, 6 dicembre 2007; Kantyrev c/Russia, n. 37213/02, §§ 50-51, 21 giugno 2007; Andreï Frolov c/Russia, n. 205/02, §§ 47-49, 29 marzo 2007; Labzov c/Russia, n. 62208/00, § 44, 16 giugno 2005, e Mayzit c/Russia, n. 63378/00, § 40, 20 gennaio 2005). Ma la stessa Corte accompagna sempre una simile indicazione ad altri fattori di contorno che determinano una violazione dell’art. 3. Così la sentenza del 15 giugno 2010, n. 34334, ha indicato come: “L’aver tenuto un detenuto in una gabbia di ferro di 3 mq. per tutta la durata del processo di appello senza che siano state fornite concrete ragioni di sicurezza e senza che niente nel comportamento o nella personalità dell’imputato giustificasse tale misura; l’essersi protratto tale processo di appello per tre mesi, con venti udienze della durata media di quattro ore, può avere indotto nell’imputato un senso di umiliazione e di inferiorità che ben può configurare un trattamento degradante in contrasto con l’art. 3 della convenzione Cedu”.
3.2.1. Acquisito, quindi, che la mancanza di uno spazio minimo vitale rappresenta con i limiti sopra indicati, uno, ma non l’unico, dei più importanti dati dai quali desumere la violazione dell’art. 3, che si traduce comunque in un vulnus della dignità umana, è necessario confrontarsi con le motivazioni della sentenza del 16 luglio 2009, n. 22635 (Sulejmanovic/Italia), che ha condannato l’Italia per violazione di detto articolo, ritenendo che, per il detenuto, avere a disposizione solo 2,70 metri quadrati ha inevitabilmente causato disagi e inconvenienti quotidiani, costringendolo a vivere in uno spazio molto esiguo, di gran lunga inferiore alla superficie minima ritenuta auspicabile dal CPT (Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti). La flagrante mancanza di spazio personale di cui il ricorrente ha sofferto è, quindi, di per sé, costitutiva di un trattamento inumano o degradante. La pronuncia, che ha visto la presenza di alcune condivisibili opinioni dissenzienti del giudice Zagrebelsky, alla quale aderisce la giudice Jočienė, opera importanti affermazioni di principio che nella giurisprudenza successiva, come già anticipato, sembrano però trovare un’opportuna correzione. La circostanza che la sentenza giunga ad una condanna dello Stato italiano impone però dare il giusto rilievo alle motivazioni addotte anche al fine di verificare la presenza di una situazione analoga a quella scrutinata nel caso deciso dai giudici di Strasburgo. Secondo la ricostruzione fattuale in quella fattispecie il reclamante per un periodo di oltre due mesi e mezzo, ha avuto a disposizione in media un spazio in cella di solo 2,70 mq. Una tale situazione, a giudizio della Corte europea, ha inevitabilmente causato disagi e inconvenienti quotidiani al ricorrente, costretto a vivere in uno spazio molto esiguo, di gran lunga inferiore alla superficie minima ritenuta auspicabile dal CPT (Comitato per la Prevenzione della Tortura). Pertanto, la flagrante mancanza di spazio personale di cui il ricorrente ha sofferto è, di per sé, costitutiva di un trattamento inumano o degradante. Una simile situazione non si è più verificata quando il detenuto ha disposto ora di 3,24 mq, ora di 4,05 mq, ora di 5,40 mq. Né durante il periodo di detenzione la Corte ha rilevato la presenza di un problema di sovraffollamento tale da incidere significativamente tanto che lo stesso si è presentato in percentuali variabili tra il 14,50% e il 30%. Inoltre, la Corte apprezza che il tempo che il detenuto poteva trascorrere fuori della cella era di otto ore e cinquanta minuti. Sin qui la presa di posizione della Corte, dalla quale si discosta condivisibilmente l’opinione del giudice Zagrebelsky, alla quale aderisce la giudice Jočienė, sulla scorta della nozione di “minimo di gravità” nell’applicazione dell’articolo 3, ossia dell’impossibilità di porre a fondamento della violazione dell’art. 3, in modo automatico la disponibilità da parte del detenuto di uno spazio minimo vitale inferiore a 3 mq. Nella citata opinione dissenziente si pone, pertanto, l’accento sulla pluralità di indicatori utilizzati dalla giurisprudenza della Corte europea per ritenere integrati le condizioni di tortura o di trattamento inumano o degradante, ed in concreto si sottolinea come, nonostante la disponibilità di uno spazio minimo vitale di 2,70 mq, il detenuto durante la giornata, aveva accesso alla passeggiata dalle ore 8.30 alle ore 11 e dalle ore 13 alle ore 15. Dalle ore 16 alle ore 18.50, egli aveva accesso alle docce e alla sala da tennis tavolo e poteva dedicarsi alla preparazione della cena. Inoltre, dalle ore 18.50 alle ore 20.20, a quanto pare egli poteva trattenersi in celle diverse dalla sua per momenti di convivialità. Un simile approccio sterilizza il rischio di una “una pericolosa deriva verso la relativizzazione del divieto, dato che, quanto più si abbassa la soglia « minima di gravità », tanto più si è costretti a tenere conto dei motivi e delle circostanze (oppure ad annullare l’equa soddisfazione)”.
All’indomani della sentenza Sulejmanovic, la Corte di Strasburgo sembra aver nuovamente messo al centro della valutazione in merito alla violazione dell’art. 3, un approccio multifattoriale: “54.  Pour établir une violation de l’article 3, la Cour se sert du critère de la preuve « au-delà de tout doute raisonnable », qui peut cependant résulter d’un faisceau d’indices, ou de présomptions non réfutées, suffisamment graves, précis et concordants (Ramirez Sanchez, précité, § 117,).
55.  Les mesures privatives de liberté s’accompagnent inévitablement de souffrance et d’humiliation. S’il s’agit là d’un état de fait inéluctable qui, en tant que tel et à lui seul n’emporte pas violation de l’article 3, cette disposition impose néanmoins à l’État de s’assurer que tout prisonnier est détenu dans des conditions compatibles avec le respect de la dignité humaine, que les modalités de sa détention ne le soumettent pas à une détresse ou à une épreuve d’une intensité qui excède le niveau inévitable de souffrance inhérent à une telle mesure et que, eu égard aux exigences pratiques de l’emprisonnement, sa santé et son bien-être sont assurés de manière adéquate ; en outre, les mesures prises dans le cadre de la détention doivent être nécessaires pour parvenir au but légitime poursuivi (Frérot c. France, no 70204/01, 12 juin 2007, § 37, et Renolde c. France, no 5608/05, §§ 119-120, 16 octobre 2008)” (20 aprile 2011, Payet/Francia). Tanto che in quest’ultima fattispecie la Corte europea rileva una violazione dell’art. 3, anche se il detenuto poteva fruire di uno spazio minimo vitale di 4,15 mq, considerando che “…le sentiment d’oppression était accentué par l’absence d’ouverture extérieure donnant à l’air libre et que l’éclairage électrique insuffisant ne permettait pas de compenser le manque de lumière naturelle pour lire ou écrire. Par ailleurs, le détenu ne pouvait sortir de sa cellule qu’une heure par jour pour une promenade qui, compte tenu de la configuration des lieux, ne lui permettait pas de faire de l’exercice physique”. Nello stesso senso può essere letta la pronuncia del 18 marzo 2010, Kouzmin/Russia, che rinviene una violazione dell’art. 3, per il periodo trascorso da un detenuto in una cella che pur disponendo di uno spazio minimo vitale superiore a 3mq, si caratterizzava per l’assenza di luce naturale e di un sistema igienico che offrisse al detenuto la possibilità di soddisfare i suoi bisogni naturali in delle condizioni di decenza.
3.3. L’analisi svolta della giurisprudenza della Corte europea non può dirsi conclusa senza un’ultima precisazione: la presenza di un patrimonio giuridico essenziale in capo all’essere umano ha portato le Corti competenti in materia di diritti dell’uomo a ritenere che la violazione del divieto imperativo di tortura faccia parte del cd. jus cogens. In questo senso, la sentenza della Corte europea nel caso Al-Adsani/Regno Unito, 2001, in senso ancora più ampio ha concluso la Corte interamericana dei diritti dell’uomo nel caso Caesar/Trinidad e Tobago, 2005, che ha incluso nella nozione di jus cogens anche l’insieme dei trattamenti degradanti ed inumani, ed ancora la sentenza del Tribunale penale per l’ex Jugoslavia (sentenza Furundžjia). Lo jus cogens tutela valori materialmente superiori dell’ordinamento internazionale, nel senso di limitare non solo la capacità degli Stati di porre in essere accordi che si pongano in violazione dello jus cogens (in questo senso la Convenzione di Vienna del 1969, che però non perimetra lo jus cogens), ma di esporre gli Stati stessi a forme di responsabilità internazionali e nazionali come indicato da Cass., Sez. Un., 11 marzo 2004, n. 5044: “Le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute che tutelano la libertà e la dignità della persona umana come valori fondamentali, e che configurano come crimini internazionali i comportamenti che più gravemente attentano all’integrità di tali valori, sono parte integrante dell’ordinamento italiano e costituiscono parametro dell’ingiustizia del danno causato da un fatto doloso o colposo altrui. In particolare, la deportazione della popolazione civile, nel corso di un conflitto armato – consumatosi, nel caso di specie, in territorio italiano – e l’assoggettamento dei deportati ai lavori forzati devono essere qualificati come crimini internazionali. La commissione di tali crimini comporta la possibilità di esercitare la giurisdizione civile nei confronti dello Stato cui essi risultino attribuibili, in applicazione del principio della giurisdizione universale ed in stretta analogia con la disciplina prevista per l’immunità funzionale degli organi statali nelle medesime ipotesi. I crimini suddetti si traducono inoltre in violazione di norme inderogabili poste a protezione dei diritti fondamentali della persona umana, che si collocano al vertice dell’ordinamento internazionale e tendono quindi a prevalere su ogni altra norma, di carattere convenzionale o consuetudinario. Tali norme precludono allo Stato straniero, convenuto per il risarcimento dei danni derivanti dalla loro violazione, di giovarsi dell’immunità della giurisdizione, in ragione del carattere essenziale che i valori da esse tutelati rivestono per l’intera comunità internazionale”.
4. E’ necessario a questo punto verificare se anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea le condizioni detentive dello Slimani siano state tali da integrare una violazione dall’art. 3 CEDU. Il periodo monitorato attraverso l’istruttoria disposta va dal 25 luglio 2009 al 31 gennaio 2011, durante il quale il reclamante è stato ristretto presso la Casa circondariale di Lecce. La suddetta struttura ha una capienza di 660 posti ed una capienza tollerabile secondo le indicazioni offerte dalla stessa amministrazione penitenziaria pari a 1.100 detenuti. A fronte di  questi dati, la Direzione della Casa circondariale di Lecce ha comunicato che nel 2009 il suddetto Istituto penitenziario si è caratterizzato per una presenza media giornaliera di 1278 detenuti, che è divenuta di 1377 nel 2010. All’interno della Sezione detentiva dove è stato allocato il reclamante tutte le celle, dotate di impianto di illuminazione e di ampia finestra, misurano 10,17 mq al lordo degli arredi ivi presenti e ad esse è annesso un vano contenente i servizi igienici (lavandino, water e bidet) fruibili in maniera riservata, ma privi di acqua calda. Le celle sono sprovviste di vano docce, ma i detenuti possono fruire di quelli, dotati di acqua calda e collocati in sezione una volta al giorno con esclusione dei giorni festivi. Tutti i detenuti possono, inoltre, trascorrere fuori dalla stanza detentiva dalle ore 8,30 alle ore 11,00 e dalle ore 15,00 alle ore 17,00. In particolare, il reclamante ha frequentato il corso di scuola elementare che si svolge dal lunedì al sabato dalle ore 8,30 alle ore 12,30. Quanto al fattore: spazio minimo vitale lo Slimani è stato ristretto per lo più in una cella con altro detenuto, potendo quindi fruire di 5,08mq e solo in alcuni periodi di 3,39mq, quando è stato ristretto con altri due detenuti, i periodi più significativi al di sopra delle due settimane sono stati dal 3 settembre 2009 all’1 novembre 2009, dal 19 dicembre 2009 all’8 gennaio 2010, dal 3 febbraio 2010 al 7 marzo 2010; dal 10 luglio 2010 al 6 settembre 2010. In questi periodi, il reclamante si duole di aver occupato il più alto letto a castello della cella posto ad appena 50 cm. dal soffitto, affermazione quest’ultima non smentita dall’amministrazione penitenziaria. La stessa amministrazione affermava che tali locali vengono riscaldati d’inverno mediamente tra le 4 e le 5 ore al giorno e che i detenuti possono esercitare il proprio credo religioso secondo le disposizioni contenute nell’ordinamento penitenziario ed è assicurata il rispetto delle pratiche religiose che comportano variazioni alimentari quali ad esempio il Ramadan. Infine, nessuna risultanza in merito ad atti di autolesionismo si evinceva dagli atti a disposizione dell’amministrazione penitenziaria a carico del detenuto eccezion fatta per un breve periodo dal 20 maggio 2010 al 25 maggio 2010 nel quale aveva intrapreso lo sciopero della fame. Né il reclamante a tal fine indicava ulteriori elementi fattuali, tali da circostanziare l’episodio in questione e consentire l’espletamento di un approfondimento istruttorio ulteriore. Facendo applicazione delle coordinate offerte dalla Corte europea, non può ritenersi integrato quel “minimo di gravità” necessario per integrare una violazione dell’art. 3 CEDU e ritenere che vi sia stata a danno del reclamante tortura o un trattamento inumano o degradante. Infatti, lo spazio mimino vitale anche nei periodi nei quali il detenuto è stato ristretto con altre due persone è superiore ai 3mq, le celle detentive sono dotate di adeguati servizi igienici e sono adeguatamente areate, riscaldate ed illuminate. Inoltre, l’interessato nel corso del giorno ha potuto fruire di spazi all’aperto, ha potuto fare la doccia al di fuori della propria cella ed ha potuto frequentare il corso di scuola elementare. Pertanto, l’unico periodo nel quale si è andati vicini ad integrare una violazione dell’art. 3 CEDU, è stato dal 10 luglio 2010 al 6 settembre 2010, periodo nel quale la chiusura del corso scolastico e la limitazione delle ore fruibili all’esterno della cella detentiva condivisa con altri due detenuti se ulteriormente protratto nel tempo avrebbe potuto comportare una violazione del precetto contenuto nel citato art. 3. Pertanto, questo giudicante ritiene che non vi sia stata nei confronti del detenuto tortura o trattamento inumano o degradante. Questa conclusione non porta, però, al rigetto tout court del reclamo essendo necessario verificare se la dignità del detenuto sia stata lesa sotto altro profilo. È evidente, infatti, che mentre la CEDU salvaguarda la dignità del detenuto dal punto di vista meramente conservativo, la Costituzione italiana anche nella lettura correttamente operata dal legislatore ordinario si spinge oltre ed in un’ottica positiva, orienta la pena verso una finalità rieducativa, che deve concretamente apprezzarsi nel corso della detenzione alla quale è sottoposto ogni detenuto.
4.1. Il combinato disposto degli artt. 2 e 3 cost. impone, infatti, allo Stato italiano di attivarsi anche in fase propulsiva e non meramente conservativa rispetto al patrimonio giuridico anche dei detenuti, che devono avere la possibilità durante il periodo di detenzione di vedere rimossi quegli ostacoli all’apprezzamento dei valori costituzionali il cui travisamento ha comportato da parte loro la commissione di illeciti penali. Quest’affermazione merita di essere giustificata attraverso una brevissima, e per evidenti esigenze di economia, sintetica disamina della nozione di dignità dell’uomo all’interno del nostro ordinamento nazionale. Lo Stato costituzionale, anche nella dimensione italiana, nato nello scorso secolo all’indomani della seconda guerra mondiale, frutto dell’incontro della tradizione liberale con quella democratica e socialista pone in modo chiaro al centro del sistema l’individuo (l’unico precedente significativo è l’esperienza della Repubblica di Weimar), innanzitutto attraverso la sua protezione dalle aggressioni della maggioranza. Autorevole dottrina con immagine fulminante ha suggerito che le norme costituzionali del dopo guerra abbiano trovato nei campi di concentramento il loro laboratorio più triste e al contempo più fecondo. Non a caso i diritti fondamentali vengono riconosciuti come preesistenti a guisa che lo Stato diviene servente rispetto alla loro realizzazione. L’individuo quale soggetto di diritto vive nelle carte costituzionali non solo attraverso l’intangibilità di alcune delle sue posizioni giuridiche definite fondamentali, ma per il tramite delle relazioni sociali attraverso le quali proietta la sua individualità che deve essere tutelata anche in quelle dinamiche. Di questa doppia valenza che assume il patrimonio giuridico dell’individuo una sintesi eccellente è rappresentata dalla dignità umana. La fortuna di questa nozione è tale da valicare i confini meramente nazionali, come rammentato supra e da ritagliare una dimensione giuridica autonoma al singolo individuo indipendentemente dal suo far parte di una collettività, tanto da poterla rivendicare autonomamente grazie al rilievo che assume nelle più importanti convenzioni internazionali, si pensi al Preambolo della Carta delle Nazioni Unite del 26 giugno 1945, al Preambolo della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948, al Preambolo del Patto internazionale dei diritti civili e politici del 19 dicembre 1966, al Preambolo della Dichiarazione di Vienna del 1993, anche contro lo Stato. Accanto, però, alla dimensione meramente conservativa che ben soddisfaceva le esigenze dello Stato monoclasse, le nuove carte costituzionali, ivi inclusa quella italiana, sono attente a soddisfare le esigenze del nascente Stato pluriclasse attraverso meccanismi che ruotando attorno al singolo producono l’effetto di comporre e prevenire quella conflittualità che caratterizza ogni società pluralista. Il doppio volto assunto dalla nozione di dignità umana si è cristallizzato all’interno del patrimonio costituzionale europeo come dimostrato ad esempio nell’esperienza costituzionale tedesca oltre che in quella italiana alla quale doverosamente si farà cenno in seguito. Nella prima l’esegesi dell’art. 1 comma 1 del Grundgesetz è stata fortemente influenzata dalla nozione di elaborazione dottrinale dell’”Objektformel”, secondo la quale la dignità umana è lesa tutte le volte in cui l’uomo è ridotto a semplice mezzo. Riflessione quest’ultima che appare particolarmente utile nel segnare la dimensione negativa dei limiti del potere dello Stato che pure nell’applicazione della pena detentiva raggiunge una portata estrema rispetto alla capacità di limitare i diritti fondamentali dell’individuo. Pure quando agisce per applicare la pena il detenuto non può mai assumere una dimensione meramente strumentale, la sua dignità umana sarebbe lesa, se la pena si risolvesse, ad esempio, nel mero controllo dei livelli di criminalità, ossia se l’interevento statale fosse indirizzato a governare la statistica dei reati, risultando il singolo quasi un elemento fungibile all’interno di questo processo. Affianco a questa dimensione meramente negativa si genera un fattore positivo in quanto la dignità umana per essere pienamente tutelata necessita del riconoscimento della stessa da parte collettività, quindi della sua promozione attraverso azioni positive agganciate al binomio dignità – solidarietà. Questa peculiare forza propulsiva assegna alla dignità umana nella sua dimensione sintetica il ruolo di concetto chiave per la tutela costituzionale dei singoli diritti fondamentali.
Il primato della persona umana è evidente anche nella nostra Costituzione che da un lato vieta ogni strumentalizzazione dell’individuo; dall’altro ne propone la promozione in ogni formazione sociale. Sotto il primo profilo merita di essere ricordato il passo motivazionale della celebre sentenza della Corte cost. 364/1988, che quale dimostrazione ultima dell’incostituzionalità dell’art. 5 c.p., si esprime nei seguenti termini: “Far sorgere l’obbligo giuridico di non commettere il fatto penalmente sanzionato senza alcun riferimento alla consapevolezza dell’agente, considerare violato lo stesso obbligo senza dare alcun rilievo alla conoscenza od ignoranza della legge penale e dell’illiceità del fatto, sottoporre il soggetto agente alla sanzione più grave senza alcuna prova della sua consapevole ribellione od indifferenza all’ordinamento tutto, equivale a scardinare fondamentali garanzie che lo Stato democratico offre al cittadino ed a strumentalizzare la persona umana, facendola retrocedere dalla posizione prioritaria che essa occupa e deve occupare nella scala dei valori costituzionalmente tutelati”.
Pertanto, l’art. 2 cost. stabilisce quale valore base dello Stato la tutela della persona; l’art. 3, comma 1, immette nell’ordinamento la nozione di pari dignità sociale, mentre, l’art. 3, comma 2 cost., impegna lo Stato nello sviluppo dei valori che la Carta costituzionale riconosce ad ogni individuo. Il legame tra la dignità umana ed i singoli valori fondamentali è presente nella giurisprudenza della Corte costituzionale. A titolo esemplificativo basti rammentare quanto affermato da Corte cost. 23 luglio 1991, n. 366, nel chiarire il rapporto tra dignità umana e la libertà e la segretezza della corrispondenza: “Sin dalla sentenza n. 34 del 1973, questa Corte ha affermato che la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altro mezzo di comunicazione costituiscono un diritto dell’individuo rientrante tra i valori supremi costituzionali, tanto da essere espressamente qualificato dall’art. 15 della Costituzione come diritto inviolabile.
La stretta attinenza di tale diritto al nucleo essenziale dei valori di personalità – che inducono a qualificarlo come parte necessaria di quello spazio vitale che circonda la persona e senza il quale questa non può esistere e svilupparsi in armonia con i postulati della dignità umana – comporta una duplice caratterizzazione della sua inviolabilità. In base all’art. 2 della Costituzione, il diritto a una comunicazione libera e segreta è inviolabile, nel senso generale che il suo contenuto essenziale non può essere oggetto di revisione costituzionale, in quanto incorpora un valore della personalità avente un carattere fondante rispetto al sistema democratico voluto dal Costituente. In base all’art. 15 della Costituzione, lo stesso diritto è inviolabile nel senso che il suo contenuto di valore non può subire restrizioni o limitazioni da alcuno dei poteri costituiti se non in ragione dell’inderogabile soddisfacimento di un interesse pubblico primario costituzionalmente rilevante, sempreché l’intervento limitativo posto in essere sia strettamente necessario alla tutela di quell’interesse e sia rispettata la duplice garanzia che la disciplina prevista risponda ai requisiti propri della riserva assoluta di legge e la misura limitativa sia disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria”. Più di recente la stessa Corte (22 luglio 2010, n. 269) segnala il legame esistente tra dignità umana e diritto alla salute: “Questa Corte ha già più volte affermato che «lo straniero è […] titolare di tutti i diritti fondamentali che la Costituzione riconosce spettanti alla persona» (sentenza n. 148 del 2008) ed in particolare, con riferimento al diritto all’assistenza sanitaria, ha precisato che esiste «un nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l’attuazione di quel diritto». Quest’ultimo deve perciò essere riconosciuto «anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l’ingresso ed il soggiorno nello Stato, pur potendo il legislatore prevedere diverse modalità di esercizio dello stesso»”. Lo stretto filo che lega la dignità umana ed i singoli diritti tutelati dalla Costituzione è presente in numerosissime sentenze del Giudice delle leggi che si occupano dell’ordinamento penitenziario. In questo caso il binomio è dignità umana e finalità rieducativa della pena (art. 27 comma 3 cost.), quest’ultima specificazione del più ampio dovere gravante in capo allo Stato di rimuovere i limiti che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Anche in queste si coglie un duplice impianto; da un lato, la perentoria affermazione in merito al fatto che la restrizione della libertà personale non azzera i diritti fondamentali della persona umana (Corte cost. 26/1999; 158/2001); dall’altro, la lesione a carico della dignità umana che si genera laddove venga inibito tout court l’accesso ad una pena che sia in grado di raggiungere quella finalità rieducativa scolpita nell’art. 27, comma 3, cost. Così Corte cost., 16 marzo 2007, n. 78, ha affermato che: “Il legislatore ben può, ovviamente – tenuto conto della particolare situazione del detenuto cittadino extracomunitario che sia entrato illegalmente in Italia o sia privo di permesso di soggiorno – diversificare, in rapporto ad essa, le condizioni di accesso, le modalità esecutive e le categorie di istituti trattamentali fruibili dal condannato o, addirittura, crearne di specifici, senza però potersi spingere fino al punto di sancire un divieto assoluto e generalizzato di accesso alle misure alternative nei termini dinanzi evidenziati. Un simile divieto contrasta con gli stessi principi ispiratori dell’ordinamento penitenziario che, sulla scorta dei principi costituzionali della uguale dignità delle persone e della funzione rieducativa della pena (artt. 2, 3 e 27, terzo comma, della Costituzione), non opera alcuna discriminazione in merito al trattamento sulla base della liceità della presenza del soggetto nel territorio nazionale. L’assoluta preclusione all’accesso alle misure alternative alla detenzione, nei casi in esame, prescinde, peraltro, dalla valutazione prognostica attinente alla rieducazione, al recupero e al reinserimento sociale del condannato e alla prevenzione del pericolo di reiterazione di reati, cosicché la finalità repressiva finisce per annullare quella rieducativa”. La centralità della funzione rieducativa della pena come appare evidente anche dall’impianto generale dell’ordinamento penitenziario non riguarda com’è ovvio solo gli strumenti alternativi alla detenzione, ma anche la conduzione della detenzione stessa, che non può essere concepita se non in funzione della progressiva rieducazione del detenuto. Intesa quest’ultima come offerta di occasioni trattamentali che devono poter liberamente essere colte dal soggetto condannato. In assenza di quest’ultime la mera detenzione vedrebbe degradare il detenuto a mero oggetto di esecuzione penale. Pertanto, la posizione giuridica che nella fattispecie sembra poter essere aggredita dal comportamento dell’amministrazione penitenziaria non è tanto la dignità umana sub specie di diritto a non subire tortura o trattamenti inumani o degradanti assunto, quanto la dignità umana del detenuto intesa come diritto a subire una pena che sia costantemente orientata verso un processo rieducativo e non si risolva in mero decorso del tempo in un regime particolarmente aspro nella misura in cui è costretto a trascorrere 19 ore e mezza al giorno nell’estate del 2010 dal 10 luglio 2010 al 6 settembre 2010, 67 giorni condividendo una cella con altri due detenuti con a disposizione un limitato spazio vitale pari a 3,39 mq al lordo degli arredi e dormendo su di un letto posto ad appena 50 cm. dal soffitto, periodo nel quale si raggiungono temperature torride (in assenza pare superfluo rammentarlo di un impianto di condizionamento dell’area come di un frigorifero in cella per la refrigerazione degli alimenti), ed avendo la sola possibilità di trascorrere fuori dalla camera detentiva dalle ore 8,30 alle ore 11,00 e dalle ore 15,00 alle ore 17,00, periodo nel quale l’ora d’aria trascorsa in un cortile di cemento di modeste dimensioni non appare come un’attività “salutare”. In questo periodo l’assenza di qualsivoglia offerta trattamentale, in considerazione della chiusura del corso scolastico frequentato dal detenuto, il sovraffollamento della struttura penitenziaria occupata da 1377 a fronte di una capienza di 660 detenuti ed una tollerabilità di 1100, esaltano il disagio rappresentato dalle condizioni detentive particolarmente severe, in modo tale da risultare lesive della dignità del detenuto, che si vede catapultato in un buco nero nel quale l’unico sollievo sembra poter essere rinvenuto nel mero decorso del tempo scandito da un’alba sempre uguale e senza fine. L’accertamento della lesione della dignità del detenuto nei termini sopra indicati non comporta però il suo automatico addebito in capo all’amministrazione penitenziaria, in quanto ciò dipende dal regime giuridico della responsabilità, che si ritenga operante nella fattispecie.
5. La lesione della dignità del detenuto e del diritto a soffrire una pena orientata alla rieducazione genera un danno non patrimoniale nell’accezione affermatasi all’indomani delle celebri sentenze della III Sezione della Suprema Corte nn. 8827 e 8828/2003 e n. 233/2003, della Corte costituzionale, che hanno ricondotto nell’ambito dell’art. 2059 c.c. la lesione del danno esistenziale, sintagma utilizzato per descrivere il danno cagionato a diritti costituzionali inerenti la persona. Tra questi come sopra specificato rientra quale manifestazione della dignità umana anche il diritto della persona sottoposta ad esecuzione penale a subire una pena che sia costantemente orientata alla sua rieducazione. Importanti specificazioni sul tema del danno non patrimoniale sono state offerte da Cass., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972 (e più di recente da Cass., Sez. Un., 30 giugno 2011, n. 14402), che ha dettato una sorte di decalogo in materia, al quale in questa sede appare opportuno uniformarsi, partendo dal presupposto della necessità che i diritti della persona di rango costituzionale siano assistiti da una forma di tutela risarcitoria qualunque sia la natura contrattuale o aquiliana della responsabilità del danneggiante: “Nell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l’obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale; se l’inadempimento dell’obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all’espediente del cumulo di azioni”. Rinviando al punto successivo la disamina in merito alla natura giuridica della responsabilità dell’amministrazione penitenziaria nelle articolazioni possibili in questa sede della responsabilità extracontrattuale e della responsabilità da contatto sociale qualificato, che richiama la disciplina della responsabilità da inadempimento contrattuale, appare opportuno verificare la presenza di un filtro posto dalla citata sentenza delle Sezioni Unite per evitare che il più ampio ambito di applicazione riconosciuto all’art. 2059 c.c. si risolva nella diffusione del risarcimento di danni bagatellari. Il giudice nomofilattico, infatti, afferma che: “La gravità dell’offesa costituisce requisito per l’ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili: il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità e il pregiudizio non sia futile”. Secondo l’insegnamento della Suprema Corte, quindi, la lesione dell’interesse giuridico deve essere tale da superare quella soglia minima di tollerabilità che, come orienta la vita nella società libera, allo stesso modo ispira i rapporti tra detenuti ed amministrazione penitenziaria, all’insegna di un dovere di solidarietà che grava anche in capo ai primi. Ancora il danno non deve essere futile ossia non deve tradursi nell’esercizio del diritto in modo disagevole, ovvero nella pretesa tutela di diritti del tutto immaginari. Sia il requisito della gravità della lesione che della serietà del danno si riscontrano nel periodo di detenzione che va dal 10 luglio 2010 al 6 settembre 2010 risulta essere presente. In considerazione del fatto che in questo lasso temporale le condizioni particolarmente afflittive della detenzione sofferta: la riduzione dello spazio minimo vitale nei termini sopra indicati, l’effetto sovraffollamento, l’assenza di attività da svolgere al di fuori della cella detentiva eccezion fatta per la fruizione del cortile passeggi e della doccia, unitamente all’assenza di attività trattamentale hanno raggiunto un adeguato livello di gravità che si è tradotto in un danno serio consistito nella battuta d’arresto nel percorso rieducativo del condannato, che in ottica esponenziale ha raggiunto il suo livello massimo a ridosso degli ultimi giorni di carcerazione sofferta in simili condizioni, il cui limite temporale non era altrimenti conosciuto dal detenuto. In quei giorni la dignità del detenuto è stata lesa, perché la privazione della sua libertà personale avvenuta in condizioni deteriori rispetto a quelle ordinarie, non si è accompagnata ad alcun processo rieducativo.
6. Quanto alla natura giuridica della responsabilità dell’amministrazione penitenziaria le strade percorribili sono tre: quella della responsabilità aquiliana, quella della responsabilità da contatto sociale qualificato e quella della responsabilità, latu sensu, contrattuale. Mentre le prima riposa sul precetto generico del neminem laedere, la seconda trova fondamento in una lettura a compasso allargato dell’art. 1173 c.c., che valorizza l’atipicità delle fonti delle obbligazioni, che possono trovare sede non solo in sede contrattuale, ma più in generale nell’ordinamento giuridico in forza di un contatto sociale qualificato. Infatti, potrebbe riprendersi il ragionamento sviluppato da Cass., Sez. III, 22 gennaio 1999, n. 589, in tema di responsabilità medica, l’amministrazione penitenziaria ed i suoi operatori non possono essere considerati alla stregua del quisque de populo responsabile unicamente del dovere di non ledere l’altrui sfera giuridica, nello stesso senso le sentenze 8826/2007 sempre della III Sezione, nonché le Sezioni Unite 577/2008. Questa impostazione che riesce a dare spiegazione di quelle situazioni nelle quali si valorizza la presenza di obblighi di protezione in assenza di un obbligo primario di prestazione non si attaglia all’odierna fattispecie nella quale non si discute della responsabilità del singolo appartenente all’amministrazione penitenziaria. L’intero apparato amministrativo della struttura penitenziaria, infatti, con gli apporti degli uffici esterni sovraintende all’esecuzione della pena detentiva ed è gravato da un insieme di obblighi specifici, che preesistono al comportamento dannoso, nei confronti del detenuto, alcuni dei quali rivolti alla tutela di beni costituzionali fondamentali (si pensi al diritto alla salute ed a quello alla riservatezza), altri finalizzati al soddisfacimento di quella che con una formula meramente descrittiva può essere qualificata come un’obbligazione di mezzi, ossia il dovere di offrire occasioni trattamentali al detenuto. Inoltre, sul piano più strettamente teorico appare preferibile aderire all’impostazione espressa da Cass., Sez. Un., 26 giugno 2007, n. 14712, che restringe la portata dell’art. 1173 c.c. nella parte in cui dottrina e giurisprudenza hanno valorizzato gli altri atti o fatti idonei a far produrre obbligazioni in conformità all’ordinamento giuridico e sottolinea come il regime generale degli obblighi ex lege non si discosti da quello che caratterizza gli obblighi di derivazione contrattuale. La responsabilità latu sensu contrattuale, anche quando l’obbligo è fissato dallo stesso legislatore poggia, infatti, sulla violazione di un obbligo assunto o imposto per la legge e sul mancato raggiungimento del risultato dedotto in obbligazione. Siamo in presenza di un’ipotesi analoga a quella analizzata dalla giurisprudenza nel caso di danno da mobbing cagionato dall’amministrazione-datrice di lavoro al proprio dipendente per violazione dell’art. 2087 c.c., fattispecie che viene fatta rientrare ordinariamente nel paradigma della responsabilità contrattuale, pur non escludendo la possibilità che il danneggiato in alcune ipotesi possa agire anche per via aquiliana. Nel caso in esame viene in rilievo la diretta violazione di quegli obblighi contenuti nei testi fondamentali sovranazionali come nazionali, nonché nelle norme dell’ordinamento penitenziario a guisa che si può apprezzare non soltanto la perdita derivante dalla lesione alla dignità del detenuto, ma anche il non miglioramento del suo processo di rieducazione ex art. 27 comma 3 cost. Sotto questo profilo viene in essere una responsabilità per violazione di un obbligo ex lege differente da quella scrutinata da Cass., Sez. Un., 17 aprile 2009, n. 9147 e da Cass. civ., sez. I, 10 marzo 2010, n. 5842, che si sono occupate del danno dello Stato-legislatore da mancata trasposizione di direttiva comunitaria anche in quelle occasioni si è valorizzata la natura contrattuale della responsabilità del danneggiante. Nei citati precedenti giurisprudenziali si è giunti, infatti, ad una conclusione, che non può essere estesa al caso in esame, avendo la Suprema Corte concluso per la natura indennitaria della responsabilità della p.a. in quanto proveniente da atto illecito sul piano comunitario, ma non su quello nazionale. Al contrario, nella fattispecie il comportamento dell’amministrazione risulta antigiuridico nella misura in cui viola obblighi che operano a livello nazionale. Da ciò deriva che l’inadempimento non genera il diritto ad un indennizzo, ma ad un risarcimento da parte dell’amministrazione.
6.1. La qualificazione della natura giuridica della responsabilità dell’amministrazione penitenziaria quale responsabilità contrattuale non incide sulla possibilità che da quest’ultima si generino danni non patrimoniali. Anche sotto questo profilo vale il richiamo alle indicazioni offerte da Cass., Sez. Un., 26972/2008: “Nell’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l’obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale; se l’inadempimento dell’obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all’espediente del cumulo di azioni”.
7. La qualificazione della responsabilità dell’amministrazione penitenziaria in termini di responsabilità, latu sensu, contrattuale richiama la disciplina giuridica della responsabilità da inadempimento ex artt. 1218 e segg. c.c.. Pertanto, dal punto di vista probatorio vale il regime previsto nell’art. 1218 c.c., secondo l’esegesi offerta da Cass., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533. In omaggio al principio di vicinanza della prova e di persistenza presuntiva del diritto, il danneggiato deve limitarsi ad allegare l’inadempimento oggettivo, ossia il fatto storico e soggettivo (l’imputabilità del fatto storico), mentre spetta al presunto danneggiante prova di aver adempiuto ovvero di non versare in colpa per non aver potuto adempiere. Nell’atto di reclamo il detenuto ha contestato la violazione di una pluralità di obblighi. Il mancato rispetto di alcuni di questi è stato accertato a seguito dell’istruttoria disposta. Oltre al più ampio richiamo agli artt. 2, 3, comma 2, 3 27 comma 3 cost., rileva il mancato rispetto di alcuni obblighi discendenti dalla l. n. 354/1975. In particolare dell’art. 1, commi 1 e 6: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto delle dignità della persona… Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”; dell’art. 5, comma 1: “Gli istituti penitenziari devono essere realizzati in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti o internati”; dell’art. 6 comma 1: “I locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente”; dell’art. 13, commi 1 e 3: “Il trattamento penitenziario deve rispondere ai particolari bisogni della personalità di ciascun soggetto… Per ciascun condannato e internato, in base ai risultati dell’osservazione, sono formulate indicazioni di merito al trattamento rieducativo da effettuare ed è compilato il relativo programma, che è integrato o modificato secondo le esigenze che si prospettano nel corso dell’esecuzione.”; dell’art. 15, commi 1 e 2: “Il trattamento del condannato e dell’internato è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia. Ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi d’impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro.”. Nonché di alcuni obblighi che discendono dal d.P.R. n. 230/2000 ed in particolare dall’art. 1, comma 2: “Il trattamento rieducativo dei condannati e degli internati è diretto, inoltre, a promuovere un processo di modificazione delle condizioni e degli atteggiamenti personali, nonchè delle relazioni familiari e sociali che sono di ostacolo a una costruttiva partecipazione sociale”; dall’art. 7, comma 2: “I vani in cui sono collocati i servizi igienici forniti di acqua corrente, calda e fredda, sono dotati di lavabo, di doccia e, in particolare negli istituti o sezioni femminili, anche di bidet, per le esigenze igieniche dei detenuti e internati”; dall’art. 16, comma 2 e 4: “La permanenza all’aperto, che deve avvenire, se possibile, in spazi non interclusi fra fabbricati, deve essere assicurata per periodi adeguati anche attraverso le valutazioni dei servizi sanitario e psicologico, accanto allo svolgimento delle attività trattamentali, come strumento di contenimento degli effetti negativi della privazione della libertà personale… Gli spazi destinati alla permanenza all’aperto devono offrire possibilità di protezione dagli agenti atmosferici”. Infatti, il detenuto nel periodo di reclusione sofferto dal 10 luglio 2010 al 6 settembre 2010, è stato ristretto in un istituto sovraffollato occupato da 1377 a fronte di una capienza di 660 detenuti ed una tollerabilità di 1100, non ha fruito di alcuna attività trattamentale formulata secondo un programma individualizzato, non ha fruito di un vano igienico dotato di acqua calda, non ha fruito di spazi all’aperto dotati di protezione dagli agenti atmosferici, non ha fruito di un programma trattamentale che alternasse attività finalizzate alla rieducazione alternate ad attività all’aperto. Infine, ha trascorso 19 ore e mezzo in una cella utilizzando uno spazio vitale pari a 3,39 mq al lordo degli arredi, dormendo su di un letto a castello posto a 50 cm. dal soffitto della stanza. Quest’ultima situazione appare violare il precetto dell’art. 6, comma 1, l. 354/1975, in quanto pur se manca espressamente un’indicazione legislativa su quale sia l’ampiezza sufficiente dei locali detentivi, non può non rilevarsi come si tratti di uno spazio di poco superiore a quello di 3 mq dalla Corte europea ritenuto ex se in grado di determinare un trattamento inumano nella citata sentenza Sulejmanovic, di gran lunga inferiore all’indicazione contenuta nel 2° Rapporto Generale [CPT/Inf (92) 3] che per le celle di Polizia: “Il criterio che segue (considerato come un livello auspicabile piuttosto che uno standard minimo) è attualmente usato nel valutare celle di polizia intese per essere occupate da una sola persona che resti al massimo qualche ora: nell’ordine di 7 metri quadrati, 2 metri o più tra le pareti, 2 metri e mezzo tra il pavimento e il soffitto” ed a quella prevista dall’art. 62 del regolamento edilizio del Comune di Lecce nel cui ambito territoriale ricade la Casa circondariale dove è stato ristretto il detenuto secondo il quale: “I locali di categoria A1 adibiti a letto devono avere una superficie minima di mq. 9 se per una persona e mq. 14 se per due persone”.
8. Rispetto a ciò che è emerso in sede istruttoria e che ha consentito di appurare la violazione delle norme sopra riportate la puntuale difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato ha consentito di convenire anche grazie alle indicazioni fornite dall’amministrazione penitenziaria sull’assenza di ulteriori violazioni di obblighi a partire da quanto detto in tema di mancato rispetto dell’art. 3 CEDU o di obblighi dell’ordinamento penitenziario, ma non ha portato a ritenere inesistenti le violazioni dei precetti sopra descritte.
9. Non merita, invece, di essere accolto il reclamo del detenuto in relazione alle richieste risarcitorie che riguardano un prospettato ma non provato danno biologico discendente dalle condizioni detentive alle quali il detenuto è stato sottoposto, in questo senso, va rammentato come in omaggio alle indicazioni offerte dalla già pronuncia delle Sezioni Unite n. 26972/2008: “Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato”, sia pure mediante presunzioni, possibilità questa, però, che impone un’allegazione di fatti e circostanze che non è in concreto avvenuta, essendosi limitato il detenuto genericamente ad affermare di aver messo in atto gesti autolesionistici senza indicare alcuna precisa modalità di tempo e di luogo.
Allo stesso modo non merita di essere accolto il reclamo del detenuto nella parte in cui avanza richiesta di risarcimento del danno per lesione della dignità umana anche nelle forme, sopra meglio esplicate, del diritto ad una pena orientata ad una finalità rieducativa, in quanto in ragione delle modalità detentive meno estreme alle quali risulta essere stato sottoposto e della fruizione da parte del detenuto di un sia pur minimo trattamento penitenziario quel danno non ha superato un livello di tollerabilità tale da dovere essere risarcito, tanto in omaggio al dovere di solidarietà sociale che grave anche in capo a chi sia detenuto.
10. In merito alla quantificazione del danno, pur essendo l’odierno giudicante a conoscenza della pronuncia della Cassazione n. 12408/2011, che ha di recente sottolineato come i valori di riferimento per la liquidazione del danno alla persona adottati dal Tribunale di Milano devono essere applicati su tutto il territorio nazionale, rappresentando essi un valore da ritenersi equo, ovvero in grado di garantire la parità di trattamento e da applicare, come tali, in tutti i casi in cui la fattispecie concreta non presenti circostanze idonee ad aumentarne o ridurne l’entità in funzione della cd. personalizzazione del danno, ritiene di non dovere fare applicazione di quelle tabelle, essendo opportuno in assenza di un danno biologico subito dal reclamante fare applicazione di un criterio equitativo che tenga in considerazione anche le determinazioni assunte in materia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle pronunce sopra citate nelle quali ha ritenuto sussistente la presenza della violazione dell’art. 3 CEDU.
La Corte europea nella già citata sentenza 16 luglio 2009, Sulejmanovic/Italia ha concesso al detenuto un equo indennizzo pari a 1.000,00 euro per il danno morale sofferto per periodo di due mesi e mezzo nel quale poteva fruire di uno spazio minimo vitale di 2,70 mq. Rispetto a quella situazione la lesione cagionata all’odierno reclamante è di poco più contenuta sotto il punto di vista temporale e manifesta un’aggressione meno intensa al comune bene giuridico della dignità umana. In presenza di una situazione tale da integrare la tortura o il trattamento inumano o degradante si genera, in assenza di conseguenze fisiche, una sofferenza psichica di elevata intensità. Nella presente fattispecie, pertanto, il danno può essere commisurato in misura proporzionalmente inferiore e va stimato in complessivi in 220,00 (duecentoventi/00) euro. Su quanto dovuto a titolo di risarcimento del danno spettano la rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat a partire dal 6 settembre 2010 (data nella quale è cessato l’illecito dell’amministrazione penitenziaria) ad oggi e gli interessi compensativi calcolati nella misura legale separatamente sul capitale via via rivalutato dalla data della domanda sino al soddisfo (Cass. civ., Sez. III, 9338/2009).
11. Sulla richiesta di condanna alle spese va rilevata preliminarmente l’assenza di una disciplina direttamente applicabile al giudizio dinanzi al Magistrato di Sorveglianza. La lacuna deve essere colmata facendo applicazione delle norme contenute nel codice del processo civile, la cui natura di principi generali che informano l’ordinamento processuale nazionale è stata di recente ribadita dall’art. 44, comma 1, l. 69/2009. Nella fattispecie appare opportuno addivenire ex art. 92, comma 3, c.p.c. ad una compensazione delle spese sopportate dalle parti sia in ragione del solo parziale accoglimento del reclamo, vuoi a causa della condotta collaborativa prestata anche dalla parte sia pure parzialmente soccombente, infine per l’assoluta novità delle questioni il cui esame è stato affrontato nella presente controversia.

P.Q.M.

Accoglie parzialmente il reclamo nei sensi di cui in motivazione e per l’effetto condanna il Ministero della Giustizia in favore di Slimani Abdelaziz a titolo di risarcimento del danno del complessivo importo di 220,00 (duecentoventi/00) euro, oltre rivalutazione monetaria e interessi legali secondo i criteri di cui in parte motiva.
Compensa le spese di cui al presente giudizio.
Manda alla Cancelleria.

Lecce, 9 giugno 2011

Il Magistrato di Sorveglianza
(Dr. Luigi Tarantino)

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Sentenza Franzese

Suprema Corte di Cassazione

Sezioni Unite Penali

Sentenza 10 luglio 2002 – 11 settembre 2002 n. 30328

(Presidente N. Marvulli – Relatore G. Canzio)

Ritenuto in fatto

1.- Il Pretore di Napoli con sentenza del 28.4.1999 dichiarava il dott. S. F. colpevole del reato di omicidio colposo (per avere, in qualità di responsabile della XVI divisione di chirurgia dell’ospedale (omissis) – dove era stato ricoverato dal 9 al 17 aprile 1993 P. C., dopo avere subito il 5 aprile un intervento chirurgico d’urgenza per perforazione ileale -, determinato l’insorgere di una sepsi addominale da ‘clostridium septicum’ che cagionava il 22 aprile la morte del paziente) e, con le attenuanti generiche, lo condannava alla pena di mesi otto di reclusione, oltre il risarcimento del danno a favore della parte civile da liquidarsi in separato giudizio, alla quale assegnava a titolo di provvisionale la somma di lire 70.000.000.

Il giudice di primo grado, all’esito di un’attenta ricostruzione della storia clinica del C., riteneva fondata l’ipotesi accusatoria, secondo cui l’imputato non aveva compiuto durante il periodo di ricovero del paziente una corretta diagnosi né praticato appropriate cure, omettendo per negligenza e imperizia di valutare i risultati degli esami ematologici, che avevano evidenziato una marcata neutropenia ed un grave stato di immunodeficienza, e di curare l’allarmante granulocitopenia con terapie mirate alla copertura degli anaerobi a livello intestinale, autorizzando anzi l’ingiustificata dimissione del paziente giudicato ‘in via di guarigione chirurgica’. Diagnosi e cura che, se doverosamente realizzate, sarebbero invece state, secondo i consulenti medico-legali e gli autorevoli pareri della letteratura scientifica in materia, idonee ad evitare la progressiva evoluzione della patologia infettiva letale ‘con alto grado di probabilità logica o credibilità razionale’.

La Corte di appello di Napoli con sentenza del 14.6.2000 confermava quella di primo grado, ribadendo che il dott. F., in base ai dati scientifici acquisiti, si era reso responsabile di omissioni che “… sicuramente contribuirono a portare a morte il C. …”, sottolineando che “… se si fosse indagato sulle cause della neutropenia e provveduto a prescrivere adeguata terapia per far risalire i valori dei neutrofili, le probabilità di sopravvivenza del C. sarebbero certamente aumentate …” ed aggiungendo che era comunque addebitabile allo stesso la decisione di dimettere un paziente che “… per le sue condizioni versava invece in quel momento in una situazione di notevole pericolo …”.

2.- Avverso tale decisione hanno proposto ricorso per Cassazione i difensori dell’imputato deducendo:

– violazione di legge, in relazione agli artt. 135, 137, 138 e 142 c.p.p., per asserita nullità di alcuni verbali stenotipici di udienza privi di sottoscrizione del pubblico ufficiale che li aveva redatti;

– violazione di legge, in relazione agli arti 192, 546, 530 c.p.p. e 40, 41, 589 c.p., e manifesta illogicità della motivazione quanto all’affermazione di responsabilità, poiché non erano state dimostrate la direzione del reparto ospedaliero e la posizione di garante in capo all’imputato, né, in particolare, l’effettiva causalità delle addebitate omissioni di diagnosi e cura e della disposta dimissione del paziente rispetto alla morte di quest’ultimo, in difetto di reali complicanze del decorso post-operatorio e in assenza di dati precisi sulla patologia di base della perforazione dell’ileo e sull’insorgere della sindrome infettiva da clostridium septicum , rilevandosi altresì che, per il mancato esperimento dell’esame autoptico, non era certo né altamente probabile, alla stregua di criteri scientifici o statistici, che gli ipotetici interventi medici, asseritamente omessi, sarebbero stati idonei ad impedire lo sviluppo dell’infezione letale e ad assicurare la sopravvivenza del C.,

– violazione degli artt. 546 e 603 c.p.p. e mancanza di motivazione in ordine alla richiesta difensiva di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale mediante perizia medico-legale sul nesso di causalità;

– violazione degli artt. 546 c.p.p. e 133 c.p. per omesso esame del motivo di appello relativo alla richiesta riduzione della pena.

Con successiva memoria difensiva il ricorrente ha dedotto altresì la sopravvenuta estinzione del reato per prescrizione.

3.- La Quarta Sezione della Corte di Cassazione, con ordinanza del 7.2.-16.4.2002, premesso che, nonostante l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione, permaneva l’attualità della decisione sul ricorso, agli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza di condanna concernenti gli interessi civili, rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite sul rilievo dell’esistenza di un ormai radicale contrasto interpretativo, formatosi all’interno della stessa Sezione, in ordine alla ricostruzione del nesso causale tra condotta omissiva ed evento, con particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medico-chirurgo. Al più recente orientamento, secondo il quale é richiesta la prova che un diverso comportamento dell’agente avrebbe impedito l’evento con un elevato grado di probabilità ‘prossimo alla certezza’, e cioè in una percentuale di casi ‘quasi prossima a cento’, si contrappone l’indirizzo maggioritario, che ritiene sufficienti ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ per l’impedimento dell’evento.

Il Primo Presidente con decreto del 26.4.2002 ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite fissando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.


Considerato in diritto

1.- Il problema centrale del processo, sollevato sia dal ricorrente che dalla Sezione remittente, ha per oggetto l’esistenza del rapporto causale fra la condotta (prevalentemente omissiva) addebitata all’imputato e l’evento morte del paziente e, di conseguenza, la correttezza logico-giuridica della soluzione ad esso data dai giudici di merito.

E’ stata sottoposta all’esame delle Sezioni Unite la controversa questione se “in tema di reato colposo omissivo improprio, la sussistenza del nesso di causalità fra condotta omissiva ed evento, con particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medicochirurgo, debba essere ricondotta all’accertamento che con il comportamento dovuto ed omesso l’evento sarebbe stato impedito con elevato grado di probabilità ‘vicino alla certezza’, e cioè in una percentuale di casi ‘quasi prossima a cento’, ovvero siano sufficienti, a tal fine, soltanto ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ della condotta che avrebbe potuto impedire l’evento”.

Sul tema si sono delineati due indirizzi interpretativi all’interno della Quarta Sezione della Corte di Cassazione: al primo orientamento, tradizionale e maggioritario (ex plurimis, Sez. IV, 7.1.1983, Melis, rv. 158947; 2.4.1987, Ziliotto, rv. 176402; 7.3.1989, Prinzivalli, rv. 181334; 23.1.1990, Pasolini, rv. 184561; 13.6.1990, D’Erme, rv. 185106; 18.10.1990, Oria, rv. 185858; 12.7.1991, Silvestri, rv. 188921; 23.3.1993, De Donato, rv. 195169; 30.4.1993, De Giovanni, rv. 195482; 11.11.1994, Presta, rv. 201554), che ritiene sufficienti ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ per l’azione impeditiva dell’evento, anche se limitate e con ridotti coefficienti di probabilità, talora indicati in misura addirittura inferiore al 50%, si contrappone l’altro, più recente, per il quale é richiesta la prova che il comportamento alternativo dell’agente avrebbe impedito l’evento lesivo con un elevato grado di probabilità ‘prossimo alla certezza’, e cioè in una percentuale di casi ‘quasi prossima a cento’ (Sez. IV, 28.9.2000, Baltrocchi, rv. 218777; 29.9.2000, Musto; 25.9.2001, Covili, rv. 220953; 25.9.2001, Sgarbi, rv. 220982; 28.11.2000, Di Cintio, rv. 218727).

Ritiene il Collegio che, per pervenire ad una soluzione equilibrata del quesito, sia necessario procedere, in via prioritaria, ad una ricognizione dello statuto della causalità penalmente rilevante, con particolare riguardo alla categoria dei reati omissivi impropri ed allo specifico settore dell’attività medico-chirurgica.

2.- Nell’ambito della scienza giuridica penalistica può dirsi assolutamente dominante l’interpretazione che, nella lettura degli artt. 40 e 41 del codice penale sul rapporto di causalità e sul concorso di cause, fa leva sulla ‘teoria condizionalistica’ o della ‘equivalenza delle cause’ (temperata, ma in realtà ribadita mediante il riferimento, speculare e in negativo, alla ‘causalità umana’ quanto alle serie causali sopravvenute, autonome e indipendenti, da sole sufficienti a determinare l’evento: art. 41 comma 2).

E’ dunque causa penalmente rilevante (ma il principio stabilito dal codice penale si applica anche nel distinto settore della responsabilità civile, a differenza. di quanto avviene per il diritto anglosassone e nordamericano) la condotta umana, attiva o omissiva che si pone come condizione ‘necessaria’ – conditio sine qua non – nella catena degli antecedenti che hanno concorso a produrre il risultato, senza la quale l’evento da cui dipende l’esistenza del reato non si sarebbe verificato. La verifica della causalità postula il ricorso al ‘giudizio controfattuale’, articolato sul condizionale congiuntivo ‘se … allora …’ (nella forma di un periodo ipotetico dell’irrealtà, in cui il fatto enunciato nella protasi è contrario ad un fatto conosciuto come vero) e costruito secondo la tradizionale ‘doppia formula’, nel senso che: a) la condotta umana `è’ condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente dal novero dei fatti realmente accaduti, l’evento non si sarebbe verificato; b) la condotta umana ‘non è’ condizione necessaria dell’evento se, eliminata mentalmente mediante il medesimo procedimento, l’evento si sarebbe egualmente verificato.

Ma, ferma restando la struttura ipotetica della spiegazione causale, secondo il paradigma condizionalistico e lo strumento logico dell’astrazione contro il fatto, sia in dottrina che nelle più lucide e argomentate sentenze della giurisprudenza di legittimità, pronunciate in riferimento a fattispecie di notevole complessità per la pluralità e l’incertezza delle ipotesi esplicative dell’evento lesivo (Sez. IV, 24.6.1986, Ponte, rv. 174511-512; Sez. N, 6.12.1990, Bonetti, rv. 191788; Sez. IV, 31.10.1991, Rezza, rv. 191810; Sez. IV, 27.5.1993, Rech, rv. 196425; Sez. IV, 26.1.1998, P.G. in proc. Viviani, rv. 211847), si è osservato che, in tanto può affermarsi che, operata l’eliminazione mentale dell’antecedente costituito dalla condotta umana, il risultato non si sarebbe o si sarebbe comunque prodotto, in quanto si sappia, ‘già da prima’, che da una determinata condotta scaturisca, o non, un determinato evento.

E la spiegazione causale dell’evento verificatosi hic et nunc, nella sua unicità ed irripetibilità, può essere dettata dall’esperienza tratta da attendibili risultati di generalizzazione del senso comune, ovvero facendo ricorso (non alla ricerca caso per caso, alimentata da opinabili certezze o da arbitrarie intuizioni individuali, bensì) al modello generalizzante della sussunzione del singolo evento, opportunamente ri-descritto nelle sue modalità tipiche e ripetibili, sotto ‘leggi scientifiche’ esplicative dei fenomeni. Di talché, un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo se esso rientri nel novero di quelli che, sulla base di una successione regolare conforme ad una generalizzata regola di esperienza o ad una legge dotata di validità scientifica – ‘legge di copertura’ -, frutto della migliore scienza ed esperienza del momento storico, conducano ad eventi ‘del tipo’ di quello verificatosi in concreto.

Il sapere scientifico accessibile al giudice è costituito, a sua volta, sia da leggi `universali’ (invero assai rare), che asseriscono nella successione di determinati eventi invariabili regolarità senza eccezioni, sia da leggi `statistiche’ che si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è accompagnato dal verificarsi di un altro evento in una certa percentuale di casi e con una frequenza relativa, con la conseguenza che quest’ultime (ampiamente diffuse nei settori delle scienze naturali, quali la biologia, la medicina e la chimica) sono tanto più dotate di ‘alto grado di credibilità razionale’ o ‘probabilità logica’, quanto più trovano applicazione in un numero sufficientemente elevato di casi e ricevono conferma mediante il ricorso a metodi di prova razionali ed empiricamente controllabili.

Si avverte infine che, per accertare l’esistenza della condizione necessaria secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, il giudice, dopo avere ri-descritto il singolo evento nelle modalità tipiche e ripetibili dell’accadimento lesivo, deve necessariamente ricorrere ad una serie di ‘assunzioni tacite’ e presupporre come presenti determinate ‘condizioni iniziali’, non conosciute o soltanto congetturate, sulla base delle quali, ‘ceteris paribus’, mantiene validità l’impiego della legge stessa.

3.- La definizione di causa penalmente rilevante ha trovato coerenti conferme anche nelle più recenti acquisizioni giurisprudenziali (Sez. fer., 1.9.1998, Casaccio, rv. 211526; Sez. IV, 28.9.2000, Baltrocchi, cit.; 29.9.2000, Musto, cit.; 25.9.2001, Covili, cit.; 25.9.2001, Sgarbi, cit.; 20.11.2001, Turco; 28.11.2000, Di Cintio, cit.; 8.1.2002, Trunfio; 23.1.2002, Orlando), le quali, nel recepire l’enunciata struttura logica della spiegazione causale, ne hanno efficacemente valorizzato la natura di elemento costitutivo della fattispecie di reato e la funzione di criterio di imputazione dell’evento lesivo. Dello schema condizionalistico integrato dal criterio di sussunzione sotto leggi scientifiche sono state sottolineate, da un lato, la portata tipizzante, in ossequio alle garanzie costituzionali di legalità e tassatività delle fonti di responsabilità penale e di personalità della stessa (Cost., artt. 25, comma 2 e 27, comma 1), e dall’altro, nell’ambito delle fattispecie causalmente orientate, la funzione selettiva delle condotte rilevanti e per ciò delimitativa dell’area dell’illecito penale.

In questo senso, nonostante i limiti epistemologici dello statuto della causalità nel rapporto fra eventi svelati dalla fisica contemporanea e le critiche di avversa dottrina, la persistente fedeltà della prevalente scienza giuridica penalistica al classico paradigma condizionalistico (v. lo Schema Pagliaro del 1992 di delega per un nuovo codice penale, sub art. 10, ma soprattutto l’articolata elaborazione del Progetto Grosso del 2001 di riforma della parte generale del codice penale, sub artt. 13 e 14) non solo appare coerente con l’assetto normativo dell’ordinamento positivo, ma rappresenta altresì un momento irrinunciabile di garanzia per l’individuazione della responsabilità nelle fattispecie orientate verso la produzione di un evento lesivo.

Il ricorso a generalizzazioni scientificamente valide consente infatti di ancorare il giudizio controfattuale, altrimenti insidiato da ampi margini di discrezionalità e di indeterminatezza, a parametri oggettivi in grado di esprimere effettive potenzialità esplicative della condizione necessaria, anche per i più complessi sviluppi causali dei fenomeni naturali, fisici, chimici o biologici.

E non è privo di significato che dalla quasi generalità dei sistemi giuridici penali europei (‘conditio sine qua non’) e dei paesi anglosassoni (‘causa but for’) siano condivise le ragioni di determinatezza e legalità delle fattispecie di reato che il modello condizionalistico della spiegazione dell’evento garantisce, in considerazione della funzione ascrittiva dell’imputazione causale.

4.- Nel prendere atto che nel caso in esame si verte in una fattispecie di causalità (prevalentemente) omissiva attinente all’attività medico-chirurgica, è da porre in evidenza innanzi tutto l’essenza normativa del concetto di `omissione’, che postula una relazione con un modello alternativo di comportamento attivo, specifico e imposto dall’ordinamento.

Il ‘reato omissivo improprio’ o ‘commissivo mediante omissione’, che è realizzato da chi viola gli speciali doveri collegati alla posizione di garanzia non impedendo il verificarsi dell’evento, presenta una spiccata autonomia dogmatica, scaturendo esso dall’innesto della clausola generale di equivalenza causale stabilita dall’art. 40, comma 2, cod. pen. sulle disposizioni di parte speciale che prevedono le ipotesi-base di reato commissivo orientate verso la produzione di un evento lesivo, suscettive così di essere convertite in corrispondenti ipotesi omissive: autonomia che, per l’effetto estensivo dell’area della punibilità, pone indubbi problemi di legalità e determinatezza della fattispecie criminosa.

Ma la presenza nei reati omissivi impropri, accanto all’equivalente normativo della causalità, di un ulteriore, forte, nucleo normativo, relativo sia alla posizione di garanzia che agli specifici doveri di diligenza, la cui inosservanza fonda la colpa dell’agente, tende ad agevolare una prevaricazione di questi elementi rispetto all’ordinaria sequenza che deve muovere dalla spiegazione del nesso eziologico.

Di talché, con particolare riferimento ai settori delle attività medico-chirurgiche, delle malattie professionali, delle alterazioni ambientali e del danno da prodotto, dall’erosione del paradigma causale nell’omissione, asseritamente motivata con l’incertezza costitutiva e con i profili altamente ipotetici della condizionalità, a fronte della pluralità e inconoscibilità dei fattori interagenti, trae alimento la teoria della ‘imputazione oggettiva dell’evento’. Questa é caratterizzata dal riferimento alla sufficiente efficacia esplicativa del fenomeno offerta dalla mera ‘possibilità’ o anche da inadeguati coefficienti di probabilità salvifica del comportamento doveroso, espressa in termini di ‘aumento – o mancata diminuzione – del rischio’ di lesione del bene protetto o di diminuzione delle chances di salvezza del medesimo bene (vita, incolumità fisica, salute, ambiente), di cui si esalta lo spessore primario e rilevante. Pure in assenza, cioè, dell’accertamento rigoroso che, qualora si fosse tenuta da parte dell’agente la condotta doverosa e diligente (ad esempio, in materia di responsabilità medica: diagnosi corretta, terapia adeguata e intervento tempestivo), il singolo evento di danno non si sarebbe verificato o si sarebbe comunque verificato, ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

Orbene, la più recente e citata giurisprudenza di legittimità ha reagito a questa riduttiva lettura della causalità omissiva ed ha segnato una netta evoluzione interpretativa – che le Sezioni Unite condividono -, soprattutto nel settore dell’attività medico-chirurgica (Sez. fer., Casaccio; Sez. IV, Baltrocchi, Musto, Di Cintio, Turco, Trunfio, Orlando), delle malattie professionali (Sez. IV, Covili) e degli infortuni sul lavoro (Sez. IV, Sgarbi), convenendo che anche per i reati omissivi impropri resta valido il descritto paradigma unitario di imputazione dell’evento.

Pur dandosi atto della peculiarità concettuale dell’omissione (è tuttora controversa la natura reale o meramente normativa dell’efficienza condizionante di un fattore statico negli sviluppi della catena causale), si osserva che lo statuto logico del rapporto di causalità rimane sempre quello del ‘condizionale controfattuale’, la cui formula dovrà rispondere al quesito se, mentalmente eliminato il mancato compimento dell’azione doverosa e sostituito alla componente statica un ipotetico processo dinamico corrispondente al comportamento doveroso, supposto come realizzato, il singolo evento lesivo, hic et nunc verificatosi, sarebbe, o non, venuto meno, mediante un enunciato esplicativo `coperto’ dal sapere scientifico del tempo.

Considerato che anche la spiegazione della causalità attiva ricorre a controfattuali ipotetici, il citato indirizzo interpretativo ha dunque ridimensionato la tesi per la quale la verifica giudiziale della condizionalità necessaria dell’omissione pretenderebbe un grado di `certezza’ meno rigoroso rispetto ai comuni canoni richiesti per la condotta propria dei reati commissivi, osservando anzi che l’affievolimento della nozione di causa penalmente rilevante finisce per l’accentuare nei reati omissivi impropri, pur positivamente costruiti in riferimento a ipotesi-base di reati di danno, il disvalore della condotta, rispetto alla quale l’evento degrada a mera condizione obiettiva di punibilità e il reato di danno a reato di pericolo. Con grave violazione dei principi di legalità, tassatività e tipicità della fattispecie criminosa e della garanzia di responsabilità personale (Cost., art. 25, comma 2 e 27, comma 1), per essere attribuito all’agente come fatto proprio un evento `forse’, non `certamente’, cagionato dal suo comportamento.

5.- Superato quell’orientamento che si sostanzia in pratica nella `volatilizzazione’ del nesso eziologico, il contrasto giurisprudenziale segnalato dalla Sezione remittente verte, a ben vedere, sui criteri di determinazione e di apprezzamento del valore probabilistico della spiegazione causale, domandandosi, con particolare riferimento ai delitti omissivi impropri nell’esercizio dell’attività medico-churgica, quale sia il grado di probabilità richiesto quanto all’efficacia impeditiva e salvifica del comportamento alternativo, omesso ma supposto come realizzato, rispetto al singolo evento lesivo.

Non é messo dunque in crisi lo statuto condizionalistico e nomologico della causalità, bensì la sua concreta verificabilità processuale: ciò in quanto i confini della ‘elevata o alta credibilità razionale’ del condizionamento necessario, postulata dal modello di sussunzione sotto leggi scientifiche, non sono affatto definiti dalla medesima legge di copertura.

Dalle prassi giurisprudenziali nel settore indicato emerge che il giudice impiega largamente, spesso tacitamente, generalizzazioni del senso comune, massime d’esperienza, enunciati di leggi biologiche, chimiche o neurologiche di natura statistica ed anche la più accreditata letteratura scientifica del momento storico.

Di talché, secondo un primo indirizzo interpretativo, le accentuate difficoltà probatorie, il valore meramente probabilistico della spiegazione e il paventato deficit di efficacia esplicativa del classico paradigma, quando si tratti di verificare profili omissivi e strettamente ipotetici del decorso causale, legittimerebbero un affievolimento dell’obbligo del giudice di pervenire ad un accertamento rigoroso della causalità. In considerazione del valore primario del bene giuridico protetto in materia di trattamenti terapeutici e chirurgici, dovrebbe pertanto riconoscersi appagante valenza persuasiva a ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ (anche se `limitate’ e con ridotti coefficienti, talora indicati in misura addirittura inferiore al 50%) dell’ipotetico comportamento doveroso, omesso ma supposto mentalmente come realizzato, sull’assunto che ‘quando è in gioco la vita umana anche poche probabilità di sopravvivenza rendono necessario l’interverto del medico’.

Le Sezioni Unite non condividono questa. soluzione, pure rappresentativa del tradizionale, ormai ventennale e prevalente orientamento della Sezione Quarta (cfr. ex plurimis, almeno a partire da Sez. IV, 7.1.1983, Melis, le citate sentenze Ziliotto, Prinzivalli, Pasolini, D’Erme, Oria, Silvestri, De Donato, De Giovanni, Presta) poiché, com’è stato sottolineato dall’opposto, più recente e menzionato indirizzo giurisprudenziale (Sez. fer., Casaccio; Sez. IV, Baltrocchi, Musto, Di Cintio, Covili, Sgarbi, Turco, Trunfio, Orlando), con la tralaticia formula delle ‘serie ed apprezzabili probabilità di successo’ dell’ipotetico intervento salvifico del medico si finisce per esprimere coefficienti di `probabilità’ indeterminati, mutevoli, manipolabili dall’interprete, talora attestati su standard davvero esigui: così sovrapponendosi aspetti deontologici e di colpa professionale per violazione del principio di precauzione a scelte politico-legislative dettate in funzione degli scopi della repressione penale ed al problema, strutturalmente distinto, dell’accertamento degli elementi costitutivi della fattispecie criminosa tipica.

Né va sottaciuto che dall’esame della giurisprudenza di settore emerge che in non pochi casi, sebbene qualificati in termini di causalità omissiva per mancato impedimento dell’evento, non si è tuttavia in presenza di effettive, radicali, omissioni da parte del medico. Infatti, talora si verte in tema di condotte commissive colpose, connotate da gravi errori di diagnosi e terapia, produttive di per sé dell’evento lesivo, che è per ciò sicuramente attribuibile al soggetto come fatto proprio; altre volte trattasi di condotte eterogenee e interagenti, in parte attive e in parte omissive per la mancata attivazione di condizioni negative o impeditive. Ipotesi queste per le quali, nella ricostruzione del fatto lesivo e nell’indagine controfattuale sull’evitabilità dell’evento, la giurisprudenza spesso confonde la componente omissiva dell’inosservanza delle regole cautelari, attinente ai profili di `colpa’ del garante, rispetto all’ambito – invero prioritario della spiegazione e dell’imputazione causale.

6.- E’ stato acutamente osservato in dottrina che il processo tende con le sue regole ad esercitare un potenziale dominio sulle categorie del diritto sostantivo e che la laboriosità del procedimento di ricostruzione probatoria della tipicità dell’elemento oggettivo del reato coinvolge la tenuta sostanziale dell’istituto, oggetto della prova, scardinandone le caratteristiche dogmatiche e insidiando la tipicità della fattispecie criminosa.

Ma pretese difficoltà di prova, ad avviso delle Sezioni Unite, non possono mai legittimare un’attenuazione del rigore nell’accertamento del nesso di condizionamento necessario e, con essa, una nozione `debole’ della causalità che, collocandosi ancora sul terreno della teoria, ripudiata dal vigente sistema penale; dell’ ‘aumento del rischio’, finirebbe per comportare un’abnorme espansione della responsabilità per omesso impedimento dell’evento, in violazione dei principi di legalità e tassatività della fattispecie e della garanzia di responsabilità per fatto proprio.

Deve tuttavia riconoscersi che la definizione del concetto di causa penalmente rilevante si rivela significativamente debitrice nei confronti del momento di accertamento processuale, il quale resta decisivo per la decodificazione, nei termini effettuali, dei decorsi causali rispetto al singolo evento, soprattutto in presenza dei complessi fenomeni di ‘causazione multipla’ legati al moderno sviluppo delle attività.

Il processo penale, passaggio cruciale ed obbligato della conoscenza giudiziale del fatto di reato, appare invero sorretto da ragionamenti probatori di tipo prevalentemente inferenziale-induttivo che partono dal fatto storico copiosamente caratterizzato nel suo concreto verificarsi (e dalla formulazione della più probabile ipotesi ricostruttiva di esso secondo lo schema argomentativo dell’ ‘abduzione’), rispetto ai quali i dati informativi e giustificativi della conclusione non sono contenuti per intero nelle premesse, dipendendo essi, a differenza dell’argomento `deduttivo’, da ulteriori elementi conoscitivi estranei alle premesse stesse.

D’altra parte, lo stesso modello condizionalistico orientato secondo leggi scientifiche sottintende il distacco da una spiegazione di tipo puramente deduttivo, che implicherebbe un’impossibile conoscenza di tutti gli antecedenti sinergicamente inseriti nella catena causale e di tutte le leggi pertinenti da parte del giudice, il quale ricorre invece, nella premessa minore del ragionamento, ad una serie di ‘assunzioni tacite’, presupponendo come presenti determinate ‘condizioni iniziali’ e ‘di contorno’, spazialmente contigue e temporalmente continue, non conosciute o soltanto congetturate, sulla base delle quali, ‘ceteris paribus’, mantiene validità l’ impiego della legge stessa. E, poiché il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto, né procedere ad una spiegazione fondata su una serie continua di eventi, l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento potrà essere riconosciuta fondata soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente da escludere l’intervento di un diverso ed alternativo decorso causale.

Di talché, ove si ripudiasse la natura preminentemente induttiva dell’accertamento in giudizio e si pretendesse comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, secondo criteri di utopistica ‘certezza assoluta’, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del diritto e del processo penale in settori nevralgici per la tutela di beni primari.

Tutto ciò significa che il giudice, pur dovendo accertare ex post, inferendo dalle suddette generalizzazioni causali e sulla base dell’intera evidenza probatoria disponibile, che la condotta dell’agente ‘è’ (non ‘può essere’) condizione necessaria del singolo evento lesivo, è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di ‘certezza processuale’, conducenti conclusivamente, all’esito del ragionamento probatorio di tipo largamente induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da ‘alto grado di credibilità razionale’ o ‘conferma’ dell’ipotesi formulata sullo specifico fatto da provare: giudizio enunciato dalla giurisprudenza anche in termini di ‘elevata probabilità logica’ o ‘probabilità prossima alla – confinante con la certezza’.

7.- Orbene, il modello nomologico può assolvere nel processo penale allo scopo esplicativo della causalità omissiva tanto meglio quanto più è alto il grado di probabilità di cui l’explanans è portatore, ma non è sostenibile che si elevino a schemi di spiegazione del condizionamento necessario solo le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimano un coefficiente probabilistico ‘prossimo ad 1’, cioè alla ‘certezza’, quanto all’efficacia impeditiva della prestazione doverosa e omessa. rispetto al singolo evento.

Soprattutto in contesti, come quello della medicina biologica e clinica, cui non appartengono per definizione parametri di correlazione dotati di tale valore per la complessa rete degli antecedenti già in fieri, sui quali s’innesta la condotta omissiva del medico, per la dubbia decifrabilità di tutti gli anelli della catena ezio-patogenetica dei fenomeni morbosi e, di conseguenza, per le obiettive difficoltà della diagnosi differenziale, che costruisce il nodo nevralgico della criteriologia medico-legale in tema di rapporto di causalità.

E’ indubbio che coefficienti medio-bassi di probabilità cal. frequentista per tipi di evento, rivelati dalla legge statistica (e ancor più da generalizzazioni empiriche del senso comune o da rilevazioni epidemiologiche), impongano verifiche attente e puntuali sia della fondatezza scientifica che della specifica applicabilità nella fattispecie concreta. Ma nulla esclude che anch’essi, se corroborati dal positivo riscontro probatorio, condotto secondo le cadenze tipiche della più aggiornata criteriologia medico-legale, circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti in via alternativa, possano essere utilizzati per il riconoscimento giudiziale del necessario nesso di condizionamento.

Viceversa, livelli elevati di probabilità statistica o schemi interpretativi dedotti da leggi di carattere universale (invero assai rare nel settore in esame), pur configurando un rapporto di successione tra eventi rilevato con regolarità o in numero percentualmente alto di casi, pretendono sempre che il giudice ne accerti il valore eziologico effettivo, insieme con l’ irrilevanza nel caso concreto di spiegazioni diverse, controllandone quindi 1′ `attendibilità’ in riferimento al singolo evento e all’evidenza disponibile.

8.- In definitiva, con il termine ‘alta o elevata credibilità razionale’ dell’accertamento giudiziale, non s’intende fare riferimento al parametro nomologico utilizzato per la copertura della spiegazione, indicante una mera relazione quantitativa entro generi di eventi ripetibili e inerente come tale alla struttura interna del rapporto di causalità, bensì ai profili inferenziali della verifica probatoria di quel nesso rispetto all’evidenza disponibile e alle circostanze del caso concreto: non essendo consentito dedurre automaticamente – e proporzionalmente – dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge la conferma dell’ipotesi sull’esistenza del rapporto di causalità.

La moderna dottrina che ha approfondito la teoria della prova dei fatti giuridici ha infatti precisato che; mentre la ‘probabilità statistica’ attiene alla verifica empirica circa la misura della frequenza relativa nella successione degli eventi (strumento utile e talora decisivo ai fini dell’indagine causale), la ‘probabilità logica’, seguendo l’incedere induttivo del ragionamento probatorio per stabilire il grado di conferma dell’ipotesi formulata in ordine allo specifico fatto da provare, contiene la verifica aggiuntiva, sulla base dell’intera evidenza disponibile, dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica per il singolo evento e della persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento giudiziale (in tal senso, cfr. anche Cass., Sez. IV, 5.10.1999, Hariolf, rv. 216219; 30.3.2000, Camposano, rv. 219426; 15.11.2001, Puddu; 23.1.2002, Orlando, cit.). Si osserva in proposito che, se nelle scienze naturali la spiegazione statistica presenta spesso un carattere quantitativo, per le scienze sociali come il diritto – ove il relatum è costituito da un comportamento umano – appare, per contro, inadeguato esprimere il grado di corroborazione dell’explanandum e il risultato della stima probabilistica mediante cristallizzati coefficienti numerici, piuttosto che enunciare gli stessi in termini qualitativi.

Partendo dunque dallo specifico punto di vista che interessa il giurista, le Sezioni Unite, nel condividere le argomentate riflessioni del P.G. requirente, ritengono, con particolare riguardo ai decorsi causali ipotetici, complessi o alternativi, che rimane compito ineludibile del diritto e della conoscenza giudiziale stabilire se la postulata connessione nomologica, che forma la base per il libero convincimento del giudice, ma non esaurisce di per se stessa la verifica esplicativa del fenomeno, sia effettivamente pertinente e debba considerarsi razionalmente credibile, sì da attingere quel risultato di ‘certezza processuale’ che, all’esito del ragionamento probatorio, sia in grado di giustificare la logica conclusione che, tenendosi l’azione doverosa omessa, il singolo evento lesivo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe inevitabilmente verificato, ma (nel quando) in epoca significativamente posteriore o (per come) con minore intensità lesiva.

D’altra parte, poiché la condizione ‘necessaria’ si configura come requisito oggettivo della fattispecie criminosa, non possono non valere per essa gli identici criteri di accertamento e di rigore dimostrativo che il giudizio penale riserva a tutti gli elementi costitutivi del fatto di reato.

Il procedimento logico, invero non dissimile dalla sequenza del ragionamento inferenziale dettato in tema di prova indiziaria dall’art. 192 comma 2 c.p.p. (il cui nucleo essenziale è già racchiuso, peraltro, nella regola stabilita per la valutazione della prova in generale dal primo comma della medesima disposizione, nonché in quella della doverosa ponderazione delle ipotesi antagoniste prescritta dall’art. 546, comma 1 lett. e c.p.p.), deve condurre, perché sia valorizzata la funzione ascrittiva dell’imputazione causale, alla conclusione caratterizzata da un ‘alto grado di credibilità razionale’, quindi alla ‘certezza processuale’, che, esclusa l’interferenza di decorsi alternativi, la condotta omissiva dell’imputato, alla luce della cornice nomologica e dei dati ontologici, è stata condizione ‘necessaria’ dell’evento, attribuibile per ciò all’agente come fatto proprio.

Ex adverso, l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza probatoria, quindi il plausibile e ragionevole dubbio, fondato su specifici elementi che in base all’evidenza disponibile lo avvalorino nel caso concreto, in ordine ai meccanismi sinergici dei plurimi antecedenti, per ciò sulla reale efficacia condizionante della singola condotta omissiva all’interno della rete di causazione, non può non comportare la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio stabilito dall’art. 530 comma 2 c.p.p., secondo il canone di garanzia ‘in dubio pro reo’. E non, viceversa, la disarticolazione del concetto di causa penalmente rilevante che, per tale via, finirebbe per regredire ad una contraddittoria nozione di `necessità’ graduabile in coefficienti numerici.

9.- In ordine al problema dell’accertamento del rapporto di causalità, con particolare riguardo alla categoria dei reati omissivi impropri ed allo specifico settore dell’attività medico-chirurgica, devono essere pertanto enunciati, ai sensi dell’art. 173.3 n. att. c.p.p., i seguenti principi di diritto.

a) Il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

b) Non é consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con ‘alto o elevato grado di credibilità razionale’ o ‘probabilità logica’.

c) L’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio.

Va infine ribadito che alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità, è assegnato il compito di controllare retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative – la cd. giustificazione esterna – della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da provare.

10.- Alla luce dei principi di diritto sopra affermati, occorre ora passare all’esame della fattispecie concreta sottoposta all’attenzione di questa Corte e valutare la correttezza logico-giuridica dell’apparato argomentativo dei giudici di merito a sostegno dell’affermazione di responsabilità dell’imputato.

Premesso che la motivazione della sentenza impugnata s’integra con quella di condanna di – primo grado, siccome espressamente richiamata, rileva il Collegio che questa ha adeguatamente affrontato, sia in fatto che in diritto, il problema dell’esistenza del nesso di condizionamento risolvendolo in senso affermativo.

Il dott. S. F. era stato chiamato a rispondere del reato di omicidio colposo, in qualità di responsabile della XVI divisione di chirurgia dell’ospedale (omissis) – dove era stato ricoverato dal 9 al 17 aprile 1993 P. C., dopo avere subito il 5 aprile un intervento chirurgico d’urgenza per perforazione ileale -, per avere determinato l’insorgere di una sepsi addominale da ‘clostridium septicum’ che aveva cagionato il 22 aprile la morte del paziente. Si addebitava all’imputato di non avere compiuto durante il periodo di ricovero una corretta diagnosi e quindi consentito un’appropriata terapia, omettendo per negligenza e imperizia di valutare i risultati degli esami ematologici che evidenziavano una persistente neutropenia e di sollecitare la consulenza internistica prescritta dopo l’intervento chirurgico per accertare l’eziologia della perforazione dell’ileo, anzi autorizzando, senza alcuna prescrizione, la dimissione del paziente, giudicato in via di guarigione chirurgica.

La storia clinica del C. risulta esaurientemente e analiticamente ricostruita nei seguenti termini.

Il C., ricoverato il 4 aprile 1993 presso il reparto di chirurgia d’urgenza dell’ospedale (omissis) per forti dolori addominali, venne operato il giorno successivo e l’intervento indicò un’infezione in atto da ‘perforazione dell’ileo lenticolare’, suturata mediante corretta enterrorafia. Restando incerta la causa della non comune patologia e preoccupanti i risultati degli esami emocromocitometrici effettuati il 4 e il 6 aprile (i quali evidenziavano nella formula leucocitaria una marcata neutropenia e con essa una condizione di immunodepressione del paziente) furono disposti esame di Widal Wright (eseguito con esito negativo per l’indicazione tifoidea), consulenza internistica (mai eseguita) e terapia antibiotica a largo spettro. Trasferito il 9 aprile nella XVI divisione chirurgica diretta dal dott. F., il C. continuò la terapia antibiotica e iniziò a sfebbrare il 12 aprile, senza esser sottoposto ad ulteriori esami di alcun tipo. Il dott. F., rilevato che il paziente era apirettico, il 14 aprile sospese la terapia antibiotica e dispose un nuovo emocromo, che evidenziò il giorno successivo il persistere di una gravissima neutropenia, ma, ciò nonostante, il 17 aprile dimise il C. giudicandolo ‘in via di guarigione chirurgica’ senza alcuna prescrizione. Il 19 aprile il C. accusò forti dolori addominali e, ricoverato il 20 aprile, venne nuovamente operato il giorno successivo mediante laparatomia e drenaggio di microascessi multipli; il referto microbiologico indicò esito positivo per ‘anaerobi e sviluppo di clostridium septicum’. All’esito di un terzo intervento chirurgico eseguito il 22 aprile il C. morì a causa di ‘sepsi addominale da clostridium septicum’, un batterio anaerobico non particolarmente aggressivo, che si sviluppa e si propaga però, determinando anemia acuta ed emolisi, allorché l’organismo dell’uomo è debilitato e immunodepresso per gravi forme di granulocitopenia.

Il Pretore, con l’ausilio della prova testimoniale e medico-legale (richiamando altresì autorevoli e concordi pareri della letteratura scientifica internazionale nel campo della medicina interna), identificava nella ‘neutropenia’ l’immediato antecedente causale dell’aggressione del ‘clostridium’ e del processo settico letale; escludeva, indipendentemente dall’origine della perforazione ileale, ogni correlazione fra l’intervento chirurgico e i fattori patogenetici dell’evento infausto; sottolineava come il paziente, dopo la chiusura dell’ulcera ileale, fosse stato sottoposto solo a terapia antibiotica a largo spettro, senza essere indagato sul piano internistico ed ematologico, benché la consulenza internistica fosse stata sollecitata e gli accertamenti ematologici avessero evidenziato l’insorgenza di una marcata neutropenia, con conseguente minorata difesa immunitaria. Rilevava pertanto che, se le cause della neutropenia e del conseguente, grave, stato anergico da immunodepressione fossero stati correttamente diagnosticati (unitamente alle indagini necessarie a chiarire l’eziologia della non comune perforazione ileale) e se l’allarmante granulocitopenia fosse stata curata con terapie mirate alla copertura degli anaerobi a livello intestinale, fino a far risalire i valori dei neutrofili al di sopra della soglia minima delle difese immunitarie, si sarebbe evitata la progressiva evoluzione della patologia infettiva letale da ‘clostridium septicum’ e si sarebbe pervenuti ad un esito favorevole ‘con alto grado di probabilità logica o credibilità razionale’.

Così ricostruito il nesso causale secondo il modello condizionalistico integrato dalla sussunzione sotto leggi scientifiche, il Pretore, definita altresì puntualmente la posizione apicale del dott. F. nell’ambito della divisione chirurgica ove il paziente era stato ricoverato nella fase post-operatoria e individuate precise note di negligenza e di imperizia nei menzionati comportamenti omissivi e nell’improvvida dimissione dello stesso, concludeva affermando la responsabilità dell’imputato per la morte del C..

La Corte di appello di Napoli, pur argomentando impropriamente e contraddittoriamente in termini che sembrano più coerenti con il lessico della disattesa teoria dell’aumento del rischio (“… se si fosse indagato sulle cause della neutropenia e provveduto a prescrivere adeguata terapia per far risalire i valori dei neutrofili, le probabilità di sopravvivenza del C. sarebbero certamente aumentate …”), confermava la prima decisione, richiamandone i contenuti motivazionali e ribadendo che, in base ai dati scientifici acquisiti, all’imputato erano addebitabili, oltre l’ingiustificata dimissione del paziente, gravi omissioni sia di tipo diagnostico che terapeutico, le quali “… sicuramente contribuirono a portare a morte il C. …”.

Pertanto, poiché le statuizioni dei giudici di merito risultano sostanzialmente rispondenti alle linee interpretative sopra enunciate in tema di rapporto di causalità e trovano adeguata base giustificativa in una motivazione, in fatto, immune da vizi logici, il giudizio critico e valutativo circa il positivo accertamento, ‘con alto grado di probabilità logica o credibilità razionale’, dell’esistenza del nesso di condizionamento necessario fra la condotta (prevalentemente omissiva) del medico e la morte del paziente resta incensurabile nel giudizio di legittimità e i \A rilievi del ricorrente si palesano privi di fondamento.

11.- L’ordinanza della Sezione remittente dà atto che il delitto di omicidio colposo per il quale si procede è estinto per prescrizione, in quanto il decesso del C. risale al 22 aprile ” 1993 ed è quindi ampiamente trascorso il termine di sette anni e sei mesi.

Da un lato, l’accertamento della causa estintiva del reato si palesa prioritario e immediatamente operativo rispetto alla questione in rito della nullità ‘relativa’ dei verbali stenotipici di udienza (Sez. Un., 28.11.2001, Cremonese, rv 22051 l; Sez. Un., 27.2.2002, Conti, rv. 221403), nonché rispetto alle invero generiche e subvalenti censure del ricorrente circa pretesi vizi motivazionali dell’impugnata sentenza, in punto di direzione della divisione ospedaliera e titolarità della posizione di garanzia, di colpa professionale e di dosimetria della pena.

D’altra parte, la compiuta valutazione critica, con esito negativo, del più serio e argomentato motivo di gravame, riguardante l’affermazione di responsabilità dell’imputato quanto alla prova dell’effettivo nesso di causalità fra le condotte – prevalentemente omissive – addebitategli e l’evento morte del paziente, consente a questa Corte, nell’annullare senza rinvio la sentenza impugnata in conseguenza dell’avvenuta estinzione del reato per prescrizione, di confermarne (ai sensi dell’art. 578 c.p.p. e secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità) le statuizioni relative ai capi concernenti gli interessi civili: e cioè, la condanna generica dell’imputato al risarcimento del danno, nonché al pagamento di una somma liquidata a titolo di provvisionale e delle spese di costituzione e difesa a favore della parte civile.

P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, a Sezioni Unite,

annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione; conferma le statuizioni concernenti gli interessi civili.

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